1° marzo 2009. Alba ai Piani di Pollino: diario di una escursione notturna

Raccontare la montagna è sempre una emozione, è rivivere sensazioni dopo averle raffreddate, decantate dal crogiolo di emozioni che le avvolge.

Raccontare una notturna, ancor più, è provare a respirare, a succhiare l’anima di quei momenti: il buio, il mistero, i rumori ed i suoni mai ascoltati prima.

Una escursione notturna in ‘ambiente innevato’, senza luna e con un cielo non molto generoso di stelle non consente molto ai pensieri, ti toglie il respiro: l’emozione è appagante e indescrivibile, specie se la prima volta come per me.

Era stata lunga la giornata, nell’attesa che la mezzanotte ed i minuti precedenti all’uscita di casa arrivassero presto: quei minuti quando il turbinio della preparazione si ferma: tutto è a posto, tanto fuori che dentro lo zaino, attenti agli ultimi dettagli si va.

La voglia, la paura e la perplessità di preparare una notturna con la neve, di avviarsi per una escursione di tal genere, avevano preso gli ultimi miei tempi: spesso ho guardato i bollettini meteo non pensando alle condizioni climatiche della città, ma guardando le evoluzioni sulle grandi quote: i duemila segnano spesso il limite fra il vento forte e quello che carezza dolcemente il volto, tra il gelo e le temperature miti, limite quasi continuamente sotto lo zero, almeno fino a primavera inoltrata.

La finestra di bel tempo già annunciata dall’inizio settimana aveva scaturito in me una irresistibile voglia di non rinunciare anche questa volta, una sensazione a cui non si poteva resistere: i dubbi, tanti, sembravano sparire questa volta e non tornare a galla nella mente: questa volta si, bisognava cogliere il momento e provare: provare ad uscire dal torpore quotidiano ed andare.

Così già alla metà della settimana erano partite le prime mail, senza risposte, in cerca di chi sentiva le stesse sensazioni, la stessa voglia di non accontentarsi e di mettersi in cammino di notte e sul bianco candore della neve affondando passo dopo passo di stanchezza e felicità.

Già prima di arrivare all’Impiso prime tracce di neve a Sanseverino ci avevano ricordato, sussurrandolo nel calore dell’automobile, quello che si andava a cercare: spento il motore e le luci della macchina di colpo le sensazioni sono calate su noi, “temerari” mi aveva ammonito qualcuno qualche ora prima.

Buio pesto, solo il riflesso della neve, tanta, ammucchiata ai lati della strada: i passi intorpiditi messi sul terreno scoprivano di colpo la precarietà di ogni movimento sul ghiaccio e nel buio: le lampade diventavano improvvisamente ancore necessarie anche a respirare.

Pochi minuti di preparazione, le decisioni sulle giacche da indossare -al solito più del necessario,coperte di Linus per la notte-, il dubbio sulla consistenza della neve e sulla necessità delle ciaspole e ci si muove: prima foto documentaria, quasi indesiderata a turbare quei momenti in cui le parole son tutte superflue ma necessarie a scaldare gli animi quando i volti, fra penombra e mistero, non comunicano come il giorno ed i sensi protendono sforzi ad intercettare tutto quello che non si vede.

Un caffè ancora caldo -nella notte che non si presenta poi così fredda- da inizio all’escursione: pochi passi pesanti e calziamo le ciaspole: momenti di piccole difficoltà per me non avvezzo all’attrezzatura ed ai precari equilibri della neve che sprofonda sotto i miei tanti chili.

D’improvviso ci si rende conto di essere fuori da tutto, l’automobile è già lontana ed i rumori del bosco iniziano a prevalere insieme al soffice suono della neve schiacciata: e così, mi vien da pensare, che gli abitanti del bosco si mandano una voce e noi li pronti a percepirle: un ululato, un fruscio, il verso di un allocco … pochi minuti di orecchie e lampade che scrutano tronchi tutti uguali e risplendenti nella neve e poi il suono del proprio corpo in movimento inizia a farsi sentire: il monologo del proprio corpo inizia col calore che stenta ad uscire fuori dai capi indossati: ridurre il vestiario al minimo diventa imprescindibile al movimento: fa un po’ freddo ma il corpo caldo lo percepisce solo quando il vento lo carezza raffreddandolo dolcemente.

Pochi minuti e siamo al Vacquarro dove l’acqua riempe l’aria del suo scorrere: la prima radura termina velocemente sotto i passi agili: primi passi oltre il ruscello e primi segni del bosco: la radura terminata porta subito Adriano e Stephan, guide esperte e preparate, alle prime scelte sulle direzioni molteplici fra gli alberi: primi dubbi fugati da una scelta imprescindibile: “via di qui, iniziamo a salire”. La montagna adesso si sente nelle gambe, nelle caviglie e nel respiro: il fiato nei polmoni diventa il suono principale in uno con il corpo: la stanchezza non è ancora padrona del corpo ma inizia a comunicare con la mente e col corpo: ogni passo, ogni movimento deve fare i conti con attenzione e concentrazione: il minimo passo “molle” porta il corpo in equilibrio precario: la stanchezza è lì ma la voglia di arrivare comanda e conduce corpo e mente.

Si sale: l’altimetro mi segnala che siamo sopra i 1600 metri: penso che Rummo è vicina: le due luci davanti si allontanano spesso, pensierosi e pazienti aspettano l’arrivo: poche parole a dar sollievo al fiatone che mi circonda il viso, pochi respiri profondi e si riparte: strada ce n’è, salita anche.

Nicola è dietro di me, lo ringrazio mentalmente per essermi vicino e per essere stato vicino nei giorni della preparazione e proposta dell’escursione: “se si va, io vorrei essere con voi” ha detto, sempre ribadendo di voler esserci: ho sentito in lui una persona veramente desiderosa e vicina, come me in cerca di qualcosa che non fosse “di tutti i giorni”, l’occasione per trovarsi e ricercarsi dentro: come me timoroso ed in cerca di una guida esperta cui affidarsi nell’impresa, quasi un parolone esagerato, dell’escursione notturna: le parole di Adriano venerdì sera, monito a comportarsi mettendosi sempre in condizioni di sicurezza, mi avevano molto colpito: avevo visto in lui e nella sua insistenza sulla necessità di comportamenti previdenti una persona fondamentale all’escursione: la sua presenza era stata in forse fino alla tarda serata quando Stephan, lasciando trasparire un minimo di perplessità nella voce e nel suo quasi imperturbabile stato d’animo, mi aveva comunicato di non sapere ancora della sua presenza; vedere la sua sagoma in macchina al fianco di Stephan alla mezzanotte precisa mi aveva molto incoraggiato e felicitato: ho visto sempre Adriano da anni come una persona gentile e garbata, seria e responsabile, ma i nostri rapporti scarsi di parole, si erano sempre fermati a convenevoli, riservati e timidi “ciao come stai?” seguiti dalla solite gestualità e parole di rito: l’incrocio dei nostri sguardi all’incontro ed una pacca sulla spalla mi avevano subito convinto di un nostro sentire comune, indescrivibile, ma che ci univa mai successo prima, nonostante tanti anni di amicizie e persone in comune. I passi, il respiro forte, il sudore negli abiti e sulla fronte, i pensieri e tanti ricordi, si muovono nello sforzo e nella mente. Inizio a sentire il corpo in armonia con la mente: le gambe sono pesanti e vorrebbero sganciarsi dalle ciaspole ma la mente mi dice che senza sarebbe impossibile e più dura: così anche le ciaspole entrano in sintonia con i pochi movimenti del cammino.

Ora Nicola mi segue quasi sorreggendomi nello sforzo della salita: in montagna si va con lo zaino, con le scarpe adatte e l’attrezzatura giusta ma, soprattutto, con la testa: ognuno fa la la propria strada, chi più chi meno, ma è importante farlo con la propria testa ricercandosi, smarrendosi e ritrovandosi se necessario.

Adesso la strada spiana un po’: riconosco il sentiero precedente alla radura di Rummo: molto diverso da quello di tanti altri giorni eppure sempre uguale: una piccola spianata che annuncia la Radura, la fonte e soprattutto che la salita della “spezzagambe” è vicina così come i piani sono a meno di cento metri di dislivello: la precedente piccola sosta con il tè caldo ha fatto la sua parte nel recupero di zuccheri e, soprattutto, liquidi. Una lieve discesa piacevole ma errata ci rimette subito in guardia sulla direzione esatta: durante il cammino una pista già battuta da altri qualche giorno prima è stata una utile scia: ora si dirige verso il guado del Frido portandoci fuori strada: recuperiamo i pochi metri fatti in direzione errata e affrontiamo subito la salita “fuori sentiero” a zig-zag fra i rami ricurvi ed i faggi che nelle loro dimensioni un po’ più ridotte annunciano che le quote sono vicine ai 1800 metri: la neve incomincia a farsi più dura e le ciaspole affondano meno: un sottile e brillante strato di neve sembra molto simile a ghiaccio: la presenza di sole mattutino, favorita dal bosco più rado, probabilmente determina un leggero disgelo che distrugge i cristalli di neve seguito da congelamento notturno: già al Vacquarro con Stephan avevamo notato una simile situazione ma a questa quota è particolarmente evidente ed i passi sotto le ciaspole determinano degli spaccamenti in zolle di neve di forma piatta e di spessore non credo superiore ai cinque centimetri.

La salita “spezzagambe” è terminata: il piano mi da sollievo: adesso la stanchezza prende un po’ il sopravvento: ma non c’è tempo per distrarsi: il vento soffia più forte e più freddo appena ai margini del bosco: pochi passi indietro e ci si copre: appena posato lo zaino mi accorgo di essere completamente bagnato: goccioline di acqua affiorano dal pile e luccicano sotto la lampada frontale; decido di cambiarmi, sembra possibile. Appena tolto il pile decido di cambiare anche il primo strato: tempo di preparare il cambio, pochi secondi per infilarlo ed il freddo entra nelle ossa: gli abiti asciutti sono letteralmente congelati ed il calore del corpo stenta a riscaldarli: pochi metri ancora sui margini del bosco ed il vento mostra tutta la sua capacità di raffreddare quello che tocca: “stop-wind” è un termine che ora capisco appieno e che mi porta ad indossare un nuovo strato necessario più di ogni cosa.

Siamo nella falsa spianata dei Piani e l’alba è vicina: nella penombra poche stelle in cielo visibili in maniera nitida, davanti a noi la sagoma ancora sfuocata ma inconfondibile della Serra delle Ciavole: i primi chiarori che annunciano il giorno, timidi nella notte buia senza luna, rendono visibili le nostre sagome anche a maggiori distanze: nella notte erano fioche luci in movimento ora sono corpi e movimenti distinguibili.

I passi sono sempre più pesanti e la stanchezza sta avvolgendo il mio corpo, l’emozione di essere qui a vivere questo spettacolo della natura fa diventare tutto sopportabile, trascurabile: alzo lo sguardo -gli altri sono un po’ più avanti- e spengo la lampada frontale: è quasi giorno ormai. Pochi passi e la riaccendo quasi che il cerchio di luce disegnato a pochi metri più avanti di me mi sussurri: “ancora qualche passo, forza almeno fino qui”. I passi diventano calibrati e cadenzati: ogni venti trenta metri faccio una piccola sosta con due tre respiri profondi: un forte bisogno di mangiare qualcosa mi fa richiamare gli altri ad uno spuntino veloce: i fichi secchi preparati nell’estate da mio padre, razionati e custoditi gelosamente per ogni escursione, anche oggi sono motivo di sollievo al corpo e allo spirito: sono gelati e quasi non assaporo come altre volte i loro zuccheri: con Adriano si scambia due chiacchiere pensando a lui, a mia madre e ad una amicizia comune, Maria, anche lei amante delle passeggiate nella nostra Murgia. Avverto un sottile fastidio che diventa sempre più intenso man mano che si sale: il vento che soffia arrivando da ovest mi taglia la spalla li dove lo zaino non protegge più: le asole sotto le braccia sono chiuse, per la prima volta completamente, ma il vento penetra ugualmente adesso non più una carezza ma una “spina” dolorosa che quasi toglie il respiro.

Pochi metri ancora: sono oltre i 1900 e l’orologio segnala una temperatura prossima allo zero: il vento è teso e raffredda notevolmente: d’un lampo capisco dove è la falla nella giacca, le piccolissime asole non richiudibili presenti sulla spalla: al momento dell’acquisto, alla domanda se fossero cosa buona rispetto ad altre giacche, non avevo saputo rispondere: oggi la risposta è una certezza.

La luce ormai è padrona: è giorno. La neve e gli strati superficiali si distinguono benissimo: il vento ha ricamato la superficie: a pochi metri più su è ghiaccio, quasi vetrato; le ciaspole ora sono piccoli ramponi indispensabili a non scivolare su alcuni tratti più duri e vetrati per pochi millimetri , ma per fortuna ancora scalfibili: la giornata di ieri dev’esser stata calda, tanto da sciogliere i cristalli superficiali in piccole gocce d’acqua che il cielo sereno della notte ha gelato.

Ci muoviamo liberi in questo immenso e candido splendore: adesso Adriano è con me nello spettacolo del nuovo giorno e dei suoi colori: provo a scattare qualche foto mentre il sole dietro di noi sta per sorgere all’orizzonte: la Serra Dolcedorme, una piramide bianca, riceve i primi raggi ed è quasi avvolta da cielo azzurro sfumato di rosso. Sulla timpa di Valle Piana sono distinguibili le rocce che hanno visto Alessandro, Giovanna, Sofia ed io mangiare, bere e riposarci rinunciando all’ultima salita prima della vetta: in un attimo i loro volti sono lassù con le immagini di quel giorno.

Mi volto e vedo nettamente il segno del sole che illumina Sirino e Monte Alpi in lontananza: la visibilità è molto buona ma un cielo di nubi inizia a farsi avanti circondandoci da più fronti.

Diretti i primi raggi illuminano l’estremità superiore del Pollino e della Serra del Prete: riconosco, anche se coperte di neve, le saccature nel terreno che ci hanno accolto a dormire l’agosto scorso: penso alla differenza di clima da quel giorno: quaranta gradi come quaranta le pietre contate nelle casette di Luca quel giorno sulla Serra.

Il pensiero è leggero ma intenso: Adriano ci richiama sul metterci protetti in una insenatura a mangiare qualcosa: il freddo pungente si sente adesso in tutto il corpo: fame e sete, come da tanto non mi capitava, preponderanti prendono il sopravvento: le bevande calde scorrono piacevoli nel corpo a dar sollievo anche alle gambe: non mi chiedo come mai sono qui e cosa ci faccio: sono qui, siamo qui perché dovevamo esserci, qualcosa ci ha spinto a riunirci; penso che ringraziare chi vive tali esperienze con te sia importante ma superfluo: quasi un solo corpo in certe circostanze immersi in una atmosfera magica molto più grande di quattro uomini, che li comprende senza annullarli, anzi rivalutandoli come esseri di questo mondo.

L’alba è andata: andare ancora più su non si può per oggi: vedo gli altri ancora molto carichi, forti e preparati, tuttavia prudenti: quanto fatto oggi può bastare ora comincia la via del ritorno.

La discesa sembra inizialmente sciogliermi le gambe irrigidite da freddo e stanchezza: zuccheri provvidenziali della cioccolata di Nicola mi offrono la dose giusta di attenzione: rivedo quasi tutti i passi dell’andata: i rami scansati, quelli che mi hanno intralciato e visto in ginocchio senza equilibrio, quelli più bassi sotto cui siamo passati inchinandoci: in quegli attimi tutto sembra così preciso, indimenticabile. Il passo svelto di Adriano e Stephan mi ricordano ancora una volta i miei limiti: che sia discesa o salita la montagna è faticosa, tremendamente bella ma maledettamente faticosa: arrivati alla terza radura del Vacquarro, quella superiore, e varcati i due ruscelli che ci dividono dalla faggeta che ci riporterà col suo labile sentierino di mezza costa al colle di partenza, il colle dell’Impiccato, sento dolore alle gambe, quasi crampi dolorosi in muscoli di legno: ancora una volta le ginocchia si piegano da sole e mi trovo mani nella neve a far forza per rialzarmi sui bastoncini: ringrazio il cielo di averli portati: le spalle e le braccia meno affaticate mi sorreggono nello sforzo. Ancora una pausa e poi l’ultima salita: il paletto della segnaletica è occasione per ridere sulla foto di gruppo.

Ormai è mattina inoltrata, ma il sole non vuol proprio riscaldare la terra: riguardo un’altra volta la Serra del Prete e alle mie spalle il monte del Pollino col suo canalone di Nord-Ovest che più volte ho pensato e sognato di affrontare armato di ramponi e piccozza. È l’ultimo pensiero ardito: iniziamo a salire nella faggeta: il sentierino non è mai stato così duro: il sudore ricomincia nuovamente a prendere e ad avvolgere completamente il corpo ma non come qualche ora fa: sento di essere disidratato ma di non aver sete, la stanchezza ancora ritorna a diventare padrona di corpo e mente, questa volta in maniera preponderante: calibro ogni passo davanti a me, corti e decisi, spalle in avanti a sorreggermi il più possibile con braccia e bastoncini.

Dall’alto arrivano file di escursionisti pimpanti: sono i primi volti incontrati oggi nella montagna: poche parole ristoratrici, scambi di sguardi poi ancora cammino: i pensieri mi avvolgono ed anche se stanco penso alla gioia provata, alle emozioni vissute che mai nessun racconto potrà narrare, mai nessuna parola potrà descrivere e restituire a sufficienza. Penso agli sguardi fra noi nella notte, nell’attesa dell’alba e nell’alba: penso al comune sentire che ci ha avvolto anche se non ci conoscevamo abbastanza. È così che mi chiedo cosa significhi veramente conoscere una persona se non si vivono esperienze forti come quella in corso.

Sereno e felice sorrido pensando che ormai è fatta anche se le gambe mi riportano subito alla realtà: ci sono ancora pochi metri ma bisogna ancora farli: arrivato all’ultima salita prima del colle vedo due scie di sci che salgono direzione Serra del Prete dalla cresta Nord: penso, quasi li vedo, a Renzo e Giovanni di Altamura: qualcosa mi dice che siano loro: percorro al fianco di Nicola il viale in discesa verso la macchina allungando lo sguardo per vedere il fuori strada verde scuro: alle prime non lo vedo, poi è li proprio al fianco della nostra macchina: la cosa mi da gioia, anche se non so bene il perché ma pensare che altri come me vivono la montagna in altri modi, ma con lo stesso animo, mi da gioia e sollievo. Ormai ci siamo: tolgo le ciaspole e quasi non provo nessuna differenza fra il prima e il dopo.

Ora la stanchezza è nell’anima: sento di voler tornare a respirare l’aria di casa, l’odore dei miei che mi aspettano curiosi di ascoltare: sento l’aria fredda in corpo ed il corpo desideroso di dormire, di chiudere gli occhi, di lasciar ciondolare la testa … arrivederci amici è stata davvero un’esperienza emozionante e fantastica.

Alla prossima!

 

(G. Perrone)