Più mattinieri del solito ci stiamo radunando per partire alla conquista del Vesuvio e dei Monti Lattari.
Un cielo un po’ uggioso ci accompagna durante il viaggio in autobus. Tra un canto e l’altro, tra una lettura e l’altra, tra un’informazione specialistica di un geologo (ne abbiamo ben quattro!) e l’altro arriviamo finalmente al Piazzale Vesuvio, dal quale partono i sentieri verso il Grande Cono. Dopo la discesa dal bus e le successive rituali operazioni preliminari, inizia la nostra scalata, o meglio scalatina: il percorso è breve e il dislivello lieve, per cui è proprio una passeggiata e possiamo goderci totalmente il panorama. Da un lato la montagna, dall’altro Napoli e la sua baia. La foschia rende nebulosa la visuale, invisibile il confine tra cielo e mare: è un tutt’uno.
Anche se intorno la vegetazione è scarsa, qui e lì ci sono macchie di colore, di fiori come le gialle ginestre.
Ci accompagna una guida locale, abbastanza pittoresca e fantasiosa.
Giunti finalmente al cratere incominciamo a girargli intorno, a scrutarlo: un po’ per rispetto e paura sperando che non abbia brutte intenzioni nell’immediato, un po’ per farselo amico, un po’ per carpirgli qualche segreto o particolare interessante. In qualche punto si vedono uscire gas e vapori. Qualche segno premonitore? No! Tranquilli! Nulla di tutto ciò: è tutto normale, come ci spiegano la guida e, soprattutto, i nostri geologi. È normale amministrazione.
Si prosegue e, a metà giro, dobbiamo fermarci perché il sentiero si interrompe. Avremmo potuto fare un percorso più lungo, ma i tempi non ce lo permettono e quindi dobbiamo tornare indietro. A malincuore faccio dietro-front : avrei voluto terminare la circumnavigazione del cratere e scendere al suo centro, “agli Inferi”, come alle cave di Spinazzola. Tuttavia, un po’ delusa, ridiscendo il sentiero che ci riporta al punto di partenza, dove ci aspetta la “postale” che ci condurrà al parcheggio antistante gli scavi archeologici di Ercolano, dove è prevista la pausa pranzo. Passiamo così dal “mostro” alla sua vittima, dove circa 2000 anni fa egli allungò i suoi tentacoli e armi per devastarla e sommergerla con uno spesso strato di fango.
Entrati all’interno dell’area archeologica, cominciamo ad aggirarci tra i ruderi, i resti di case e ville, cercando di seguire la nostra guida, immaginando come si svolgesse la vita in quei luoghi, cosa stessero facendo le persone nel momento dell’eruzione e cosa potessero aver pensato in quei brevi ma “lunghi” attimi (se ce ne fosse stato il tempo!). In quella città dalle case e ville, decorate in modo appassionato e fantastico, che un tempo si affacciava sul mare ed era circondata dalla spiaggia, mentre ora ci sono 300/400 metri che separano la zona archeologica dal mare. Come è possibile? La guida ci spiega che l’eruzione ha portato tanto materiale da ricoprire una intera fascia di mare con del terreno e spostare più in là la spiaggia.
Aggirandoci tra case, ville, cardi e decumani, mi rendo conto che lì il tempo si è fermato, la vita si è bloccata (come ci testimonia la presenza di tre scheletri addossati l’uno all’altro), tutto si è pietrificato; tutt’intorno c’è desolazione e rigidità. Eppure da quelle mura dipinte, dai mosaici, dalle stradine emergono tutto il calore e la vitalità di una civiltà che ha avuto il coraggio, l’ardire e, forse, l’incoscienza di svilupparsi alle pendici di un vulcano attivo. Se da un lato la fossilizzazione dà una sensazione di freddo e gelo, dall’altro il colore rosso porpora dei dipinti ci trasmette l’ardore e la passione di circa 2000 anni fa.
Terminata la visita, ci rechiamo nei nostri rispettivi alloggi, variegati: dalle confortevoli stanze d’albergo, alle camerate con insufficienti servizi, ai bungalow con stanze “per Puffi”.
Rinfrescati e rifocillati da calde docce e da una gustosa cena, ci riuniamo nella sala da pranzo dell’albergo “la Beata Solitudo”, dove Salvatore, Tonia e Maria ci allietano con canti e musiche popolari, come i cantastorie di una volta, per salutarci e darci l’appuntamento al giorno dopo.
Nonostante la stanchezza, trascorro la mia notte più nel dormiveglia che in un sonno ristoratore e riposante. Il risveglio, se lo si può chiamare così, è accompagnato e allietato dal miagolio di una famigliola di mamma gatta e i suoi tre micini, insieme al cinguettio degli uccellini. Nel frattempo il rumore dei passi e l’odore del caffè preparato da Enza mi dicono che non è più ora di dormire, anche se ce ne sarebbe il tempo, per cui mi alzo e mi preparo per la colazione. Esco dall’alloggio e mi dirigo verso la trattoria di Gigino, ma, essendo presto, c’è ancora il tempo per un ultimo affaccio a strapiombo sul mare di S Lazzaro, frazione di Agerola e per godere di un panorama straordinario e incantevole e di un’aria mattutina frizzantina.
Addolciti e ricaricati da ottimi cornetti e crostate alla frutta, sistemati i bagagli, risaliamo sull’autobus che ci trasporta a Bomerano, dove ha inizio il “Sentiero degli Dei”. Cosa avrà di divino questo percorso? È la prima e spontanea domanda che mi nasce in mente. Ancora non lo so, ma subito mi balena agli occhi il panorama che si presenta davanti: un sentiero sospeso tra mare e monti, tra terrazzamenti coltivati, vigneti, pareti rocciose che ricordano la nostra Murgia e la natura, che in questo periodo dà il meglio di sé, offrendoci una varietà di piante, fiori, colori, odori. Mi chiedo se questo è un sentiero adatto solo per Esseri Superiori oppure ha la forza di farti vivere e diventare una Divinità, almeno per un giorno. È una domanda che mi accompagna durante per tutto il tragitto in cerca di risposta. Più che una risposta la mia è una sensazione: camminando sento di essere sospesa tra cielo e terra, anzi al di sopra della terra, su una nuvoletta tutta mia che mi sposta in su e giù, che a volta mi porta molto in alto, libera di volare e andare oltre l’orizzonte e perdermi nell’immensità, a volte mi riporta a terra, tra un cisto rosso e uno bianco, papaveri ed orchidee, cespugli di valeriana rossa e di ginestre.
Il viaggio “divino”, che mi ha fatto risorge dalle ceneri e la distruzione del giorno prima, a un certo punto si interrompe a Nocelle, dove la pausa pranzo ci permette si riposarci un po’, per riprendere la via per Positano, che è una breve ma intensa discesa verso il mare, caratterizzata dalla presenza di tanti gradini (alla fine ne ho contato 1217, scalino più, scalino meno, a fronte di 700 che ci erano stati annunciati). In ogni caso il percorso è gradevole e rilassante., tra limoni e carrubi, con un occhio sempre rivolto verso l’azzurro del mare, il cui richiamo diventa più forte man mano che scendiamo ed invitante ad un tuffo “dove l’acqua è più blu”.
Giungiamo finalmente nel centro di Positano, dove ormai il gruppo è più che mai sgretolato e disperso, ma con la consapevolezza che si ricompatterà al momento di ripartire con l’aliscafo verso Salerno. Mi aggiro tra vicoli e vicoletti pieni di persone e soprattutto turisti in vacanza, negozi e negozietti che mi avvolgono in un’atmosfera “limonesca”: ovunque si vedono limoni, prodotti alimentari a base di limoni, disegni e stampe con limoni, si sente il loro profumo più o meno marcato dappertutto. E non possono mancare, ovviamente, le granite al limone: un toccasana rinfrescante e rinfrancante, dopo la passeggiata sotto il sole cocente.
Abituata a paesini di montagna, spesso spopolati o abitati da persone anziane, ritrovarmi in una località molto affollata, vitale, piena di gente soprattutto giovane è molto strano. Passare dalla leggiadria silenziosa, avvolgente, spaziosa, ovattante del Sentiero degli Dei alla vitalità “rumorosa”, angusta e assordante di Positano non è facile per me, è piuttosto spiazzante e frastornante, al punto che mi ci vuole qualche secondo per adattarmi.
Alle 18.15, come per magia, ci ritroviamo tutti davanti al molo per salire sul traghetto alla volta di Salerno, da dove il nostro viaggio di ritorno proseguirà in autobus. Salita sull’imbarcazione, il mio sguardo si dirige subito verso Positano mentre la vedo allontanarsi e finalmente riesco ad ammirarla nella sua interezza. Pian piano gli occhi seguono la costa e si rivolgono verso il mare aperto e la nostra prossima meta, anche se non ancora visibile. Si perdono, anzi “naufragano” dolcemente in quella immensa distesa azzurra e, alternativamente, lungo la costiera amalfitana che si offre al nostro sguardo lateralmente. Sono quasi sprofondata e immersa in questo panorama, dondolata dal movimento del traghetto quasi da non accorgermi di cosa succede intorno e, soprattutto, che la traversata è ormai giunta al termine: il porto di Salerno è di fronte a noi, ci sta aspettando per darci il benvenuto nuovamente sulla terra ferma. Da qui riprendiamo la strada verso casa. La stanchezza pervade in po’ tutto il gruppo, sonnacchioso e poco desideroso di chiacchiere. Una provvidenziale sosta risveglia gli animi appisolati per un ultimo accesso di vitalità, che in me si manifesta, stranamente, con una sensazione di dondolio, come se fossi ancora in mezzo al mare sull’aliscafo, e che alla fine mi accompagnerà per tutto il resto del viaggio.
Viaggio che termina all’incirca verso le ore 23.00, con la lenta discesa dal pullman e saluti sonnacchiosi ai compagni d’avventura per un arrivederci alla prossima.
P.S. all’indomani mattina, dopo una ricaricante dormita nel mio letto, mi risveglio con la stessa sensazione della serata precedente: chiudendo gli occhi mi sembra di essere ancora dondolata dalle onde del mare e di camminare tra esse.
Angela Paolicelli