2012cresta

La cresta dell’Infinito – Il diario

Infinita appare alla vista e alla fatica, speculare alla traiettoria del sole. L’attacco da Colle San Martino è da subito senza risparmio di fiato, 650 metri di dislivello per arrivare a contemplare la cresta tutta da percorrere. I miei passi come trattini segnano l’ombra dei faggi, cammino accanto all’iperico che lascio a San Giovanni.

Un cucciolo di maremmano ci segue ma non si lascia avvicinare. L’istinto e l’esperienza misurano con precisione la distanza della fiducia nell’uomo.
Le placche e i cavi di ferro, resti della teleferica del secolo scorso, osservano desolati la grande parete della Timpa di San Lorenzo. Lo sguardo vola sulle grandi traiettorie planari dei grifoni. I saliscendi ci portano alla seconda decisa salita, dove la cima Est della Manfriana ci aspetta, coperta dai colori dell’Italia. Squadrati dal disegno di un antico tempio o forse di insuperabili difese megalitiche, i blocchi di calcare rimangono sparpagliati dal tempo.
Festeggiamo il compleanno di Rossella, poi l’afforcata divide il gruppo. Sono diventato una capra che si diverte a cucire con i raggi del sole i massi sconnessi.
La terza e ultima salita affrettano il respiro ed il cuore. Assordante è il rumore di me stesso in questo silenzio che ci sgrana.
Ho poca fame e molta sete. Dopo l’incontro con i camminatori romani, ci lanciamo nella ripida, quasi avventata discesa che porta alla piana di Acquafredda. Le fronde dei faggi s’infittiscono e riescono a frenare i passi che ormai non fanno più presa sulle foglie secche.
Ritroviamo Franco e i melfesi. Lascio le visioni degli alberi serpente che danzano alla musica delle stagioni per cercare un rivolo d’acqua fredda. Basta poco alla natura per far felici gli uomini.
Raggiungiamo la fonte del Vascello, dove possiamo finalmente dissetarci. E’ gioia per la mia pelle impolverata di fatica e le mie viscere trasformate in territorio carsico.
E’ lungo il ritorno attraverso la Fagosa. Se qualcuno ha fretta di tornare a casa, io preferisco rallentare il respiro per seguire una brezza ombreggiata di verde scuro, che va a posarsi là dove la luce si mette a ridere tra le colonne che innalzano i faggi. Altissimi, vanno a raccogliere le melodie eseguite prima del tramonto. Posate accanto alle cefalantere, sono l’ultimo cibo che il bosco offre a chi l’attraversa.

Cosimo Buono