Si fa presto a dire Infinito. Per me è una parola familiare, di uso quotidiano. Parlare di Infinito, anzi di Infiniti, dei vari tipi di Infiniti, spiegare che gli Infiniti non sono tutti uguali, che ci sono Infiniti “più potenti” di altri è una prassi quasi quotidiana, per nulla trascendente: fa parte del mio lavoro.
Pensare, invece, ad un percorso che vada verso l’Infinito, che porti a toccare l’Infinito con i piedi è tutt’altra cosa. Camminare avendo come obiettivo l’Infinito è tutt’altro che routine: è un’esperienza affascinante, accattivante, altamente motivante …… ma anche molto faticante.
È da un anno che mi frulla in mente il pensiero sulla Cresta dell’Infinito. L’anno scorso rinunciai a scalarla, non ritenendo di essere pronta ad un tale sforzo. Quest’anno, però, un mesetto prima della data di tale escursione, il tarlo è tornato a farsi sentire e col passare dei giorni è diventato sempre più presente e ingombrante: ormai aveva fatto il suo nido, la sua casetta e non accennava affatto ad andarsene. Anzi. Era come se fossi già in cammino da giorni verso quella meta. Almeno mentalmente. Fisicamente meno. In ogni caso la mia mente era ormai proiettata verso l’infinito e, nonostante la lettura e rilettura della scheda tecnica mi portassero a riflettere un po’ di più sull’opportunità di affrontare quel percorso impegnativo, la decisione di provarci era stata ormai metabolizzata e, dunque, bisognava andare, zaino in spalla. Zaino preparato con maggiore cura rispetto alle altre volte. Nulla di inutile, solo l’indispensabile per: il caldo, l’eventuale vento, la fatica, il sudore e anche la cattura di attimi imperdibili.
Finalmente arriva l’ora X. Domenica 24 giugno ore 5.30: siamo nello spiazzale della stazione al raduno degli insonnoliti trekker desiderosi di raggiungere la vetta del Dolcedorme: quota 2267 m (la più alta di tutto il Parco Nazionale del Pollino). Alle 5.45 cominciano le prime auto a muoversi. Arriviamo al Colle San Martino (punto di partenza della nostra camminata a quota circa 1100 m) alle ore 7.50 circa e alle 8.10, dopo il rito della vestizione-preparazione, iniziamo a muovere i primi passi. Non abbiamo il tempo per scaldare i muscoli perché l’avvio è già tutto in salita e sotto il sole cocente. Saliamo verso il Colle della Scala (che tanto colle non è) e si avvertono vistosamente il caldo e la fatica della salita. L’acqua di scorta riesce a malapena a ristorarmi e rinfrescarmi. Ho bisogno di un po’ di tempo perché il mio corpo si adatti alla situazione e trovi il ritmo giusto.
In tre rimaniamo leggermente indietro: io, Imma e Margherita, una parte della cosiddetta “quota rosa” presente. In realtà ci accorgiamo di indossare maglie celesti o azzurre tutte e tre, per cui ci auto-battezziamo la “quota azzurra” del gruppo.
Non siamo, però, sole. Dall’alto c’è qualcuno che ci guarda e controlla: sono dei grifoni che svolazzano sulle nostre teste, uno anche a poche decine di metri e non ci perdono di vista. Tutt’intorno la vegetazione è tutt’altro che folta e rigogliosa: c’è ancora qualche fiore in via di sfioritura ed il panorama comincia a diventare più ampio e interessante anche se la foschia sfuma i contorni e dà la sensazione di maggiore distanza dal resto. Sotto di noi c’è Castrovillari.
Ad un certo punto assistiamo al cambio della guardia: i grifoni vanno via e lasciano il posto ad un grosso batuffolone bianco: un cagnolone che ci segue tenendosi, però, a debita distanza. È una guardia molto scrupolosa che si mantiene sempre in coda, si ferma ed aspetta finché l’ultimo essere umano fermo non riprende il viaggio.
Sprazzi d’ombra all’interno del bosco e sotto i nostri cari pini loricati sono un toccasana per riprendere fiato e far respirare la pelle, messa a dura prova dall’infuocante e costante esposizione ai raggi solari.
Segni del passato (resti di vecchie teleferiche) ci ricordano che un tempo si saliva e scendeva anche con mezzi diversi dai piedi e per e con altre motivazioni.
Finalmente giungiamo alla nostra prima meta: la Manfriana, che ci accoglie fraternamente con una vistosa e sventolante bandiera tricolore, che alcuni di noi riproducono o tentano di riprodurre con le proprie magliette.
Festeggiamo il compleanno di Rossella con la sua ottima crostata e ogni sorta di frutta, secca e fresca. Per qualche attimo la mente dimentica la fatica ed il percorso fatto e da fare, gode nel presente l’atmosfera ed il paesaggio circostante senza pensare, un presente senza passato né futuro, un’oasi spaziale e temporale. Ma la pausa non è eterna, né infinita e, quindi, i coordinatori ci ricordano che abbiamo ancora tanta strada davanti. È il momento di decidere: proseguire verso il Dolcedorme o tornare indietro.
Il breve consulto con uno dei coordinatori non mi aiuta in tal senso. Dopo qualche attimo di esitazione riprendo lo zaino in spalla e seguo il gruppo: sono arrivata fin lì per l’Infinito e, dunque, persisto nell’idea di proseguire ed andare fino in fondo.
Ripartiamo quasi tutti: qualcuno torna indietro, qualcun altro attende degli amici di Melfi. Scendiamo nell’Afforcata per risalire sulla cresta occidentale della Manfriana, da cui parte la lunga cresta che ci porterà a 2267 m di quota, ovvero sulla cima del Dolcedorme. È un percorso molto accidentato, su pietra e rocce, che richiede molta attenzione ed equilibrio. Il primo tratto non è difficile, è un continuo saliscendi tutto sommato fattibile. Il gruppo si allunga e si sfilaccia sempre più. Io mi trovo in coda, sono l’ultima e man mano la mia distanza dagli altri aumenta. Mi rendo conto di non riuscire a tenere il loro ritmo, a stare al loro passo, che difficilmente mi ricongiungerò agli altri prima della meta e, quindi, mi sgancio mentalmente da loro: devo seguire il mio passo e dettare a me stessa il ritmo da sostenere e le pause da effettuare. Davanti a me ho dei riferimenti visivi di coloro che mi precedono (nella circostante ridotti a puntini colorati che si muovono) che sono più che altro presenze confortanti all’idea di non essere comunque sola. Non è la prima volta che mi capita di arrivare a destinazione da sola, nel raggio di qualche centinaia di metri. Ma questa volta è diverso. Il percorso è più lungo, faticoso ed impegnativo e non posso tornare indietro. Devo necessariamente andare avanti, non posso fermarmi, né aspettare qualcuno. Mi attende un bel lungo viaggio in perfetta solitudine: posso fare affidamento solamente sulle mie forze ed energie, fisiche e mentali. Ciò non mi spaventa, ma mi dà una carica in più che mi spinge e sospinge a procedere. Diventa quasi sfida con me stessa e, soprattutto, con i miei limiti. È un modo per mettermi alla prova, capire quali sono i miei limiti e, a maggior ragione, le mie risorse. E di risorse, in questa escursione, ce ne vogliono tante. Il caldo, la fatica, la lunghezza, il dislivello, l’altitudine: sono tanti ostacoli da superare, non solo fisicamente. Ci vogliono coraggio, determinazione, motivazione, un po’ di esperienza e … un pizzico di incoscienza. Tanti ingredienti che non sempre si riesce a trovare tutti insieme e al momento giusto. Non so dove, come e quando li troverò, ma sono sicura che da qualche parte, da qualche cilindro magico li pescherò e con questa certezza un passo dopo l’altro avanzo verso la cima.
Ad un certo punto mi sembra di vedere la vetta, il punto di approdo e il mio ritmo, inconsciamente, aumenta alla vista del traguardo. Ma si tratta di un’illusione: è semplicemente un’anticima; quella vera è dietro e c’è ancora da camminare. Pensando di essere arrivata, in realtà ho raggiunto soltanto un traguardo intermedio, non la meta finale. Più cammino e più ho la sensazione di allontanarmi anziché avvicinarmi, di non arrivare mai, di sfiorare, senza raggiungere, il punto x, che diventa sempre più sfuggente, imprendibile. Ormai cammino con l’unico pensiero di camminare, di non badare al traguardo, che prima o poi raggiungerò il mio obiettivo.
Improvvisamente mi accorgo di essere giunta finalmente in cima e di poter godere della soddisfazione di essere riuscita a toccare la vetta prefissata. Sono le ore 14.30. In un attimo riesco a dimenticare come sono arrivata, tutta la stanchezza e la fatica che mi hanno accompagnato fin qui e lo spettacolo che si apre di fronte, ai lati e alle spalle mi ripaga di tutto. Bastano pochi secondi di gioia immensa, infinita per compensare le varie ore di cammino e sudore appena trascorse.
È strano: pochi attimi riescono ad eguagliare, se non superare, più di 6 ore (6 ore e 20 minuti per la precisione). Tutto diventa relativo: l’Infinito si riesce a raggiungere in 6 ore e 20 minuti e questo tempo viene semplicemente annullato in soli pochi secondi. L’Infinito, dunque, dura soltanto qualche secondo? A me è sembrato così; bizzarro, sconvolgente, incomprensibile, ma è così: ∞=una manciata di secondi … E dopo cosa succede?
Bisogna ritornare a terra: dall’Infinito al Finito!
E così, subito dopo il nostro tradizionale pranzo a sacco, ci buttiamo in picchiata verso giù, verso i Piani di Acquafredda. Seguendo un percorso molto ripido, forse più ripido della salita, in un batter di ciglia siamo ai Piani, mettendo a dura prova le nostre ginocchia. Lì ci aspettano i cosiddetti Alberi Serpente, faggi dai tronchi e rami molto contorti da assomigliare ad arrampicatori filiformi aspiranti verso il cielo.
Dopo la breve sosta, riprendiamo la via del ritorno. Tra ginocchia doloranti e vesciche ai piedi, il rientro per me diventa molto affannoso: neanche la breve pausa alla fontana del Vascello, con le sue “chiare, fresche e dolci acque”, riesce a ristorarmi. Con l’unico pensiero di arrivare il più presto possibile alle auto, inserisco “il pilota automatico”: i piedi procedono per inerzia lungo il sentiero, in totale autonomia. Alla vista delle prime cappotte delle macchine, tiro un sospiro di sollievo: finalmente è fatta. Il tempo di togliere gli scarponi, rinfrescare i piedi super accaldati e ripartiamo per far rientro alle nostre case.
Angela Paolicelli