14 OTTOBRE 2012
Il percorso sarà nella natura, alla scoperta del nostro cuore, del suo battito, muovendoci con assoluta semplicità e facendo silenzio dentro di noi.
L’esperienza di “riposare nel cuore” non deve essere forzata ma cercata naturalmente, con dolcezza e delicatezza. Se riusciremo a connetterci col nostro cuore, potremo udire la sua voce e forse anche il suo canto.
La visita ad alcuni ambienti rupestri potrà aiutarci, pensando che questi luoghi una volta risuonavano di preghiere e canti sussurrati, e forse erano abitati da qualcuno che, nel silenzio, cercava il suo cuore e scopriva Dio. Le nostre radici sono anche lì.
Per prima cosa, proveremo a mettere da parte l’abitudine automatica di parlare con gli altri di ciò che non c’entra nulla con il luogo e con ciò che si sta facendo. Poi bisognerà fare attenzione ai pensieri non pertinenti che ci portano altrove, distraendoci dall’ascolto. Porre attenzione all’ascolto, in generale, non fa riferimento solo al senso dell’udito, ma a tutti gli organi di senso e ad una mente ricettiva e curiosa. Insieme ci metteremo in cammino attraverso un angolo della nostra murgia, alla scoperta delle cripte che gli antichi scavarono nella roccia, con i nostri sensi all’erta, pronti a raccogliere i messaggi che la natura e i segni dell’essere umano ci inviano. L’ascolto, in particolare, questa volta sarà rivolto proprio al senso dell’udito. Ascolto dei suoni della natura, del vento, dello scroscio delle acque del torrente, dei versi degli uccelli; ma anche dei nostri passi, ascolto del nostro respiro, del battito del cuore. Quando avremo fatto veramente silenzio dentro di noi, saremo pronti ad ascoltare anche il suono della voce.
Spostamenti: per raggiungere il luogo dell’escursione occorrerà l’auto; aggregheremo i partecipanti in modo da usare meno auto possibili
Durata: 2-3 ore circa, soste comprese; si rientrerà a Matera entro le ore 13:00
Lunghezza del percorso: circa 4,5 chilometri
Numero massimo partecipanti: 25 persone
Sorgenti per il rifornimento idrico: nessuna; non dimenticare di portare una borraccia d’acqua
Attrezzatura: è necessario portare scarpe adatte ad un percorso su fondo anche pietroso (scarpe da trekking o da ginnastica robuste)
Coordinatori: Mara Iacovuzzi e Cosimo Buono
Info e richiesta di partecipazione: Cosimo Buono tel.328.8474201
N.B.: è indispensabile la partecipazione all’incontro di preparazione all’escursione venerdi 12 ottobre – ore 19:00, che si terrà nella sede TFN in vico Lombardi n.3. Durante l’incontro saranno fornite indicazioni su luogo dell’escursione, ora e luogo di partenza, nonché altre informazioni sui contenuti dell’escursione. I coordinatori possono modificare il percorso programmato o spostare o annullare l’escursione a causa di sopravvenute necessità. Le richieste di partecipazione all’escursione potranno essere effettuate entro venerdì 12 ottobre e fino alla concorrenza dei posti disponibili; sarà data precedenza ai soci. Per i non soci è previsto un contributo di 3 euro.
:: REGOLAMENTO ESCURSIONI ::
- Il Direttivo ha approvato e predisposto il programma annuale delle escursioni individuando, tra i soci capaci e disponibili, i responsabili sezionali cui attribuire il compito di realizzare le singole attività.
- Il programma riporta, per ciascun’escursione, il nome o i nomi dei relativi responsabili.
- Il responsabile dell’escursione può non ammettere i partecipanti che a causa della scarsa preparazione, dell’inidoneo abbigliamento, dell’atteggiamento tenuto o di quant’altro, potrebbero influire negativamente sullo svolgimento dell’escursione.
- Il responsabile dell’escursione può modificare il percorso di un’escursione programmata o di spostare o annullare la stessa a causa di sopravvenute necessità.
- Il Direttivo può non ammettere nell’elenco i nominativi dei responsabili sezionali che nell’organizzazione di escursioni abbiano dimostrato scarsa attitudine e che non diano sufficienti garanzie, impedendo agli stessi di potersi proporre per nuove escursioni.
:: OBBLIGHI DEI PARTECIPANTI ::
- Partecipare possibilmente alla riunione, quando prevista, per l’iscrizione all’escursione e versare la quota richiesta;
- Essere puntuali all’appuntamento;
- Essere fisicamente preparati ed in possesso di abbigliamento ed attrezzatura adeguati all’escursione;
- Attenersi esclusivamente alle disposizioni impartite dal responsabile non abbandonando il sentiero ed il gruppo se non preventivamente autorizzati e collaborando per la migliore riuscita dell’escursione;
- Prevedendo l’utilizzo della propria autovettura, presentarsi al raduno già riforniti di carburante.
- Essere a conoscenza del presente regolamento ed accettarlo
DOCUMENTI DI APPROFONDIMENTO
Nelle nostre città immerse giorno e notte nel frastuono, la quiete è diventata un bene di lusso.
Riabituarsi alla comunicazione silenziosa e predisporre l’orecchio all’ascolto ci può dare molti benefici.
John Muir, naturalista e scrittore di origine scozzese ha scritto:
“Lascia che la pace della natura entri in te. Come i raggi del sole penetrano le fronde degli alberi. Lascia che i venti ti soffino dentro la loro freschezza. E che i temporali ti carichino della loro energia. Allora le tue preoccupazioni cadranno come foglie in autunno.”
L’itinerario di oggi, nel silenzio, speriamo favorisca la quiete e l’ascolto.
Alcune grotte posseggono particolari caratteristiche acustiche che esaltano il suono della voce, anche il sussurro.
La meta, una chiesa rupestre, speriamo possa favorire la giusta risonanza che luoghi simili rimandano, di melodie sacre e liturgiche.
Questo aspetto particolare della “civiltà” rupestre non era stato finora indagato: si era indagato sotto molteplici angolature: sociale, religiosa, pittorica e architettonica ma il suono delle cripte era stato ignorato.
Scrive Don Basilio Gavazzeni nella sua introduzione al libro “Guida alle chiese rupestri del Materano” ( edito dalla BMG nel marzo 1988):
“Questi luoghi gridano, in silenzio, di essere letti in maniera diversa.
E’ un grido duraturo, di intensità quasi straziante se non fosse anche un canto senza pari, misconosciuto nella sua possibilità di indicare una mèta, una visione ancora occulta. Quanti siano davvero gli estatici che lo odono è arduo censire.
Presagire il pericolo che tali luoghi divengano irriconoscibili è ovvio.
La storia spirituale della città odierna – un battito di ciglia rispetto a quel passato – nonostante fratture e distrazioni apparenti, conserva una fedeltà notevole al tema fondamentale della sua anima antica.
La realtà che dardeggia il pellegrino in questo itinerario, forse unico in Occidente, perdura nella figurazione di uno scenario santo.
Bisogna riferirlo con risolutezza inalterabile, senza alcuna cautela, a chi si ostina a traguardare da sotto il cappuccio di qualche illuminismo.
Qui dimorarono per secoli uomini tutti tesi a coniugare l’azzurro eterno con la terra madre.
Entro questa persistente allegoria calcarea del materno, eremiti assoluti, anacoreti con momenti di comunità, cenobiti, incisero la loro anticipata, minima Gerusalemme celeste.
Il digiuno verbale e l’astinenza scrittoria di tale monachesimo ne sigillano i protagonisti e le comparse in una conchiglia di purissimo silenzio.
Il monachesimo cristiano nacque per salvaguardare il sapore evangelico della giovane religione tentata di omologarsi ad una società che, dopo l’imperatore Costantino, non solo le riconosceva il diritto di esistenza ma addirittura la blandiva, per calcolo opportunistico, con i privilegi.
Gli irriducibili all’addomesticamento statale guadagnarono i deserti dell’Egitto, della Palestina e dell’Asia Minore.
Tale professione di dissidenza toccò vertici di grandezza mistica e storica.
Nel nostro itinerario, le tracce di oltre cinque secoli monastici sono soprattutto di matrice orientale.
Quando i monaci bizantini arrivarono in questa contrada appartata, che inopinatamente trascriveva nelle pietre spazi misurati sulla loro anima – il deserto, il paesaggio per stranieri, l’utopia delle loro origini – fu subito matrimonio.
Silenzio, silenzio, e poi eremi, laure, cenobi ed architetture, affreschi e decorazioni, i segni di una fede materialmente spoglia ma pratica, industriosa, caparbiamente moltiplicati con pena e fatica, con nobile semplicità e serena decenza.
Perché la presenza del monachesimo orientale sortì questo rapporto particolare con la terra e probabili effetti positivi sul piano sociale? Bisogna cercare di più.
Che cosa significò per i trogloditi vivere nel cavo di una grotta?
Nelle tradizioni e nelle credenze dei Greci la caverna rappresentava il mondo. Ispirandosi ad esse, i Pitagorici, Empedocle e il Platone della Repubblica definirono il mondo come antro o caverna. Plotino commentava: “ La caverna in Platone, come l’antro di Empedocle, significa a mio avviso, il nostro mondo in cui il cammino verso l’intelligenza è la liberazione dell’anima dai suoi legami e l’ascesa fuori della caverna.”
La Pizia di Delfi oracolava in fondo ad un pauroso crepaccio. Le cavità della terra, delle montagne in particolare, erano considerati ricettacoli di energia, sedi delle potenze ctonie, signore della nascita e della morte. Nel Medio Oriente la grotta appariva una pietrificazione dell’utero.
Lo spessore simbolico della caverna fu accresciuta dal cristianesimo.
La grotta assicurava l’esuchìa, la quiete superiore per le interminabili manovre dello spirito – penitenza, orazione, lavoro. Là il monaco, con la grazia e con lo sforzo, in lotta con le potenze delle tenebre, preparava il corpo e la mente ad una maggiore precipitazione del soprannaturale, all’incontro per il quale batteva il suo cuore.
Il nostro homo religiosus diveniva così un homo faber esemplare per gli uomini che a poca distanza trascinavano una vita stenta.
I monaci influenzarono la crescita di una polis che, sia per l’attenzione a Dio sia per il penetrare sotterra, si configurava come il rovescio della torreggiante e disillusa avventura di Babele. Alcuni un giorno entrarono nelle grotte della stessa città a trasformare il materiale in spirituale, lo spirituale in materiale, con strutture sacrali garantite dalla povertà. Essi reinventarono il loro carisma nella solidarietà con un popolo facile preda della sventura e della violenza, ne lenirono le piaghe giobbiche con le medievali opere di misericordia, o, forse, con la sola presenza silenziosa, e testimoniarono il senso del vivere e del morire.
Essi vissero e morirono nei sotterranei della storia, anonimi tra gli anonimi uomini comuni. Per oltre cinquecento anni.
A chi spetta questo itinerario ascetico e mistico? A colui che possiede organi di presagio e di simpatia per riconoscervi le impronte dei monaci e degli umili, loro compagni. Entrando nei penetrali del calcare sentirà il respiro degli ospiti invisibili. Nel suo sguardo interrogante piomberanno lo stupore e il timore.
Vi è bisogno che i padri antichi, restituitisi alla libertà attraverso le grotte, vengano a parlarci della luce che scorsero, a noi spesso incatenati davanti alle fantasmagorie della caverna elettronica.”
I BASILIANI
S. Basilio, nato verso il 330 a Cesarea, in Cappadocia, frequentò le scuole a Costantinopoli e fu inviato ad Atene per studiare retorica. Tornato a Cesarea dopo il 356, abbracciò la vita monastica e viaggiò attraverso l’Egitto, la Palestina, la Siria e la Mesopotamia per incontrare gli asceti che vivevano in quelle regioni.
Al ritorno fondò diversi monasteri e compose le sue due famose Regole della vita monastica, di cui una dice:
“Se per caso è stata aggiunta agli alimenti un poco di carne bollita e salata, il Monaco non rifiuti la carne, sotto pretesto di una vanagloriosa pietà personale finendo poi per cercare cibi più preziosi e delicati, ma intinga il suo pezzo di pane nel brodo con semplicità e ne mangi con rendimento di grazie.”
Dettando queste parole, S. Basilio, considerato il Padre fondatore del Monachesimo d’Oriente, ci esprime il suo atteggiamento di tolleranza verso i limiti della condizione umana dei monaci, che devono dedicarsi a condurre una vita misurata, in comunità con i fratelli, senza la pericolosa presunzione di isolarsi dal mondo per fare gli eremiti.
Non si può dire che i Monaci Basiliani costituirono un ordine nel senso comunemente attribuito a questo termine. San Basilio non fu il fondatore di un ordine monastico, anche se influì in modo notevole sul monachesimo orientale poiché, anticipando la regola benedettina, attribuì grande importanza al lavoro, che doveva affiancarsi alla preghiera, per “ condire le opere con laudi quasi con mistico sale” ma sicuramente tutte le comunità monastiche che si formarono in Italia meridionale, quindi anche in Basilicata ed in particolare a Matera dal IX secolo d.C., si rifacevano agli insegnamenti di San Basilio.
A Matera i Monaci, convivendo con le popolazioni rupestri, costituirono un’unica società di villaggi in grotte. Accanto alla gente comune, praticavano l’agricoltura dissodando i terreni, modificando i sistemi di coltivazione, introducendo nuove piantaggioni arboree e diffondendo la lingua e la liturgia greca, assieme ai modelli architettonici nelle preziose chiese rupestri che è ancora possibile ammirare.
(Prof.ssa Francesca Sogliano – Docente di archeologia cristiana e Medievale – Università degli Studi di Basilicata)
L’esicasta è colui che cerca di circoscrivere l’incorporeo in una dimora corporea.
( San Giovanni Climaco)
Fuggi, taci, riposa
Arsenio ( IV-V secolo a.C. ), nobile diacono romano, precettore dei figli dell’imperatore Teodosio, trascorse parte della sua vita come eremita nel deserto della Tebaide, in Egitto. Un giorno, dopo aver tentato invano di porre termine alla condizione di malessere che lo opprimeva, Arsenio chiese a Cristo: “ Che cosa bisogna fare per essere salvati? “ Cristo gli rispose con tre brevi parole: Fuge, Tace, Quiesce (Hesychaze in greco), fuggi, taci, riposa.
Spiritualmente, fuggire è affermare che il mondo non ha in sé il proprio senso e il proprio fine.
Tacere, essere nel silenzio, ci permette di ascoltare, di essere presenti nel presente.
Riposare ha il significato di assenza di agitazione, calma, tranquillità: termine dell’esichia (riposo) è il silenzio di tutte le cose, l’abbandono di qualunque pensiero, affinché si possa avere esperienza del divino. Si tratta di un vuoto nel quale si è totalmente aperti al divino, che così può comunicarsi in pienezza.
L’esichia è un principio comune a tutte le pratiche religiose.
Nel “ Dizionario di mistica” alla voce “Esicasmo” troviamo la seguente definizione di Renato D’Antiga:
“ il vocabolo greco hesychia significa quiete, pace interiore; il suo equivalente latino potrebbe essere reso con tranquillitatis animae, indicando la condizione vissuta dal cristiano perfetto quando si trova immerso nella luce increata da cui riceve l’illuminazione”.
Nel “Dizionario di spiritualità” Pierre Adnes precisa: “Hesychia è il termine che nel cristianesimo di lingua greca indica la disposizione interna ed esterna necessaria per l’incontro con Dio”.
Il termine esychia può avere 4 chiavi di lettura:
- La prima, che equivale alla traduzione della parola stessa, designa il particolare stato di colui che prega;
- La seconda indica una forma di preghiera incentrata sulla ripetizione continua di un’invocazione rivolta al cuore, attraverso cui si raggiunge l’unione estatica, un metodo pratico per raccogliere, purificare e unificare tutte le energie psicofisiche;
- La terza indica il movimento monastico dell’Oriente cristiano le cui origini risalgono ai Padri del deserto;
- La quarta, che ingloba le precedenti, raffigura l’esicasmo come il sistema spirituale fondamentale dell’oriente cristiano.
Quello che sembra fondamentale, nel caso della tecnica di meditazione esicastica, è l’unione della concentrazione psicofisica con una breve formula di preghiera, la cui evocazione è sempre unita ad una respirazione consapevole.
Questo metodo aiuta a raccogliere l’intelletto e conduce all’esperienza del ritrovamento del Se’.
La preghiera esicasta è detta anche “ monologica” perché centrata su una ripetizione costante di una breve preghiera il cui elemento essenziale è il “ Kyrie “ (Signore).
Giovanni Climaco ne era un sostenitore: “ La prolissità nella preghiera riempie spesso lo spirito di immagini distraendolo, mentre sovente una sola parola (monologia) ha per effetto di raccoglierlo.
La preghiera esicasta si chiama anche “ preghiera del cuore” (kardìa) perché ha come fine il suo risveglio.
Il metodo esicasta non comporta un “uscire da sé” ( ex- stasi) ma piuttosto un “ritorno a sé” (en -stasi) per ritrovare il cuore come “ luogo di Dio “. Avere un cuore significa avere un centro, uscire dalla dispersione della sfera mentale e dai pensieri accidentali. Il cuore ha una funzione d’integrazione della personalità, esso congiunge la funzione vitale e la funzione intellettuale.
La tecnica esicasta aiuta a raccogliere l’intelletto per condurlo al cuore. Far scendere il “nous” (intelletto, mente, spirito) nel cuore significa pacificarlo, centrarlo, fare del cuore l’organo stesso di una coscienza non raziocinante. La discesa della mente nel cuore è un atto d’integrazione.