dalla Rabatana ad Anglona

Sulla via dei pellegrini

I pellegrini s’incamminavano da Tursi per raggiungere Santa Maria d’Anglona. Accadeva la prima domenica dopo la Pasqua, secondo un’antica tradizione. Oggi il pellegrinaggio è scomparso, ma quello stesso giorno la statua della Madonna, che ormai viaggia in macchina, viene prelevata e portata nella cattedrale di Tursi. Qui resta fino alla prima domenica di maggio, quando torna nuovamente al santuario.

L’escursione preparata da Enza e Saverio percorre proprio l’antica via che a piedi portava i devoti ad Anglona. Naturalmente non potevamo non partire dal quartiere più antico e caratteristico di Tursi: la Rabatana. Il nome – da Ribat, che in arabo significa borgo, luogo fortificato – è un’eredità della dominazione araba del X secolo, ma l’insediamento già esisteva, probabilmente fondato dai Goti.

Dell’antica torre resta solo il basamento, che ancora domina, collocato com’è sulla parte più alta del paese, a circa 250 metri di quota. Da quassù scrutiamo l’orizzonte ad Est cercando di scorgere il santuario, meta del cammino che ci aspetta. Ma il cielo è spazzato da un vento sporco di foschia, che limita la vista e scompiglia i capelli. Per fortuna il vento è a nostro favore, così non dobbiamo faticare troppo, a parte l’attenzione da prestare ai cappellini per non farli volare via. Ci fermiamo subito nella chiesa di Santa Maria Maggiore, l’antica cattedrale di Tursi, nella cui cripta tutta affrescata di scene della storia di Maria è conservato un presepe cinquecentesco in pietra di Altobello Persio, molto simile a quello più famoso che lo stesso autore realizzò a Matera. Scendendo per la “pitrizze” incontriamo una coppia di vecchi contadini con il loro asinello bianco, che ci sembrano arrivare dal passato. Sono molto cordiali, così ci fermiamo a parlare con loro e a scattare fotografie.
Superiamo la via che si affaccia sul burrone; una volta era un ponte levatoio, ora parte del fossato è stato riempito e la strada vi poggia sopra. Antonio Troiano, che ci guida, ci racconta che la Rabatana è stata una fortezza inespugnabile. Parla con passione di questi luoghi e del percorso che ci accingiamo a fare e “che ogni volta cambia a seconda delle condizioni meteo ed anche delle persone con cui ci si accompagna”.
Raggiungiamo il convento di San Francesco, che versa in stato di abbandono, per ammirare da bella posizione il pittoresco panorama di Tursi e il circondario di roccia arenaria bucherellata di grotte, per poi discendere lungo una ripida strada fiancheggiata da uliveti, fin sul fondo della valle del Pescogrosso.
Siamo una ventina, lasciamo alle spalle il paese di Albino Pierro e seguiamo il corso del torrente ormai in secca, dagli argini completamente cementificati, lungo una viuzza sterrata laterale. A maggio la natura ci regala tante essenze profumate: ci accompagnano la liquirizia, il rosmarino, il finocchietto selvatico, le cicorie che stanno sfiorendo e l’elicriso che sta per fiorire, persino qualche tardo asparago che spunta dai rovi e dalle macchie di lentisco.
Accogliamo come una benedizione un alberello di gelso: gustiamo avidamente i suoi dolcissimi frutti che non potrebbero avere un sapore più buono di oggi su qualunque tavola imbandita. La raccolta delle radici di liquirizia veniva effettuata dai calabresi che si spingevano fin qui, ci racconta Antonio. Ad estate inoltrata, un mezzo meccanico arava il terreno lasciando scoperte le radici che potevano essere così facilmente raccolte.
Fino agli anni Sessanta anche i bambini partecipavano alla raccolta: per le radici fasciate e gettate nei cassoni degli autocarri ricevevano un compenso a settimana di cinquemila lire. Fino alla fontana di mattoni rossi, al crocevia che porta da una parte al mare e dall’altra verso l’interno, se si esclude l’attrazione per la rigogliosa vegetazione di maggio, il percorso a ridosso della strada asfaltata è poco interessante. Siamo nella zona dei capannoni artigianali di Tursi, che abbandoniamo presto, dopo aver fatto rifornimento alla fontana dell’acqua che arriva dal Frido. Lasciamo le sabbie di Tursi e ci addentriamo nel paesaggio selvaggio e spopolato dei calanchi, sorvegliato dall’alto da qualche nibbio solitario. C’è da arrampicarsi un poco, tra le irregolarità dei calanchi. Superiamo un grande capannone dove un gregge di pecore si ripara dal sole. Poi attraversiamo soltanto terreni incolti, tra cespugli di sparto steppico e atriplice alimo. Enza mi invita ad assaggiare una foglia di questa pianta d’un verde chiaro, decisamente salata. Si dava da mangiare agli asini durante i lunghi e faticosi tragitti, ma veniva data anche ai maiali, aggiungendola ai pastoni per insaporirli. E’ così che durante le escursioni s’imparano tante notizie su piante e altre cose del nostro territorio, osservando ed ascoltando dagli altri.
La giornata, benché stemperata dal forte vento, è calda e il percorso è tutto allo scoperto. Siamo in ritardo dopo le tante pause e i rallentamenti iniziali. Il percorso è bello, tra colline, qualche scarpata, piccoli stagni circondati da canne, le graminacee che ondeggiano meravigliosamente al vento. La ginestra in fiore e il pisello odoroso aggiungono all’ambiente una bellezza che si veste di profumo e s’infila nelle nostre narici. Le orchidee sono quasi tutte ormai secche, resta ancora qualche serapide tra i prati più verdi e i cespugli di cisto. Antonio ci conduce in un luogo interno particolarmente assolato, tra le biancane desolate, da cui emergono numerosissime conchiglie fossili. Devono avere almeno un milione di anni. Restiamo attirati dal loro antico fascino marino, anche se è difficile trovarne qualcuna completamente intera.
L’ultimo tratto prima del boschetto dove ci fermeremo per il pranzo ci impegna parecchio: si sale ripidamente tra le forre, superando i ginepri e i lentischi, quando sono ormai già le due del pomeriggio. Ci diamo da fare, incoraggiandoci l’un l’altro e dando una mano a chi ha bisogno di un po’ d’aiuto e così tutti arriviamo all’ombra dei pini d’Aleppo e dei cipressi dietro una cappella dedicata alla Madonna. Si vede che è di recente fattura e accanto c’è la bella scultura in legno di un crocifisso, che scruta l’ampia valle del Sinni.
Tutto il percorso che segue è sul crinale, a cavallo tra la valle dell’Agri a sinistra e quella del Sinni a destra. Nonostante la foschia che aleggia ancora nell’aria, il paesaggio è splendido ed oltre i calanchi “a lama di coltello” si possono ammirare da un lato: i due abitati di Montalbano e di Pisticci, lo sperone roccioso di Tempa Petrolla e la città fantasma di Craco, appollaiata su un cucuzzolo. Dall’altra, si distinguono chiaramente Rotondella e il Monte Coppolo che sovrasta Valsinni. Posso solo immaginare là dietro, più lontane, le alte montagne del Pollino.
Il nostro gruppo si allunga, sfilando tra le forre e i calanchi sull’Agri ed i campi già mietuti che digradano più dolcemente sul Sinni. Ci ricompattiamo tra le balle cilindriche di fieno per la classica foto di gruppo, per poi riprendere il cammino quando siamo ormai sotto il santuario. Raggiunta la strada provinciale, alcuni preferiscono seguire più comodamente il nastro d’asfalto mentre insieme ad altri scelgo i terreni incolti che salgono a lato dei tornanti.
Da lontano osservo Maria e Nicola, con ammirazione, perché hanno sostenuto oggi una prova davvero impegnativa superando ogni difficoltà ed ora assaporano la gioia di avercela fatta. Dopo l’ultimo sperone di roccia, ormai solitario, scavalco il filo di ferro della recinzione e m’incammino sulla spianata: dietro un campo di ulivi appare la chiesa con il suo campanile e il bellissimo protiro che si avvicina sempre di più ed è un invito ad entrare.
Invece non entriamo, la nostra prima preoccupazione è di fiondarci sulla focaccia che qualcuno, con pensiero gentile, ha preparato per noi.
Ci lanciamo così di corsa che non basta per tutti. In pochi minuti lo spirito del pellegrinaggio è stato completamente dimenticato. D’accordo che si tratta di un pellegrinaggio laico, ma abbiamo pur sempre seguito la suggestione della via dei tempi passati percorsa con devozione dalla gente di Tursi. I pellegrini sicuramente per prima cosa entravano in chiesa per salutare la Madonna e ringraziarla per aver concluso il viaggio.
Quanto allo spirito di condivisione, fortunatamente lo ritroviamo grazie a Chiara che tira fuori un morbida torta e ne offre a ciascuno un pezzo.
Anch’io entro in chiesa solo molto più tardi, dopo essermi con gli altri riposato e rinfrescato. Splendido è il tempio che fu sede della cattedra vescovile di Anglona, città medievale costruita sulle rovine della greca Pandosia. Anche Anglona scomparve, sotto la spinta dei Saraceni, come ci ha raccontato volenterosamente Saverio durante la pausa pranzo nella piccola pineta. Quando la linea di costa era più alta, la chiesa, come la città, sorgeva una volta molto più vicina al mare.
Penso a questo tempio impastato di mare: affonda le fondamenta nei terreni che si sono formati in fondo al mare e fu costruita prospiciente al mare.
Antonio ci dice che le formelle fittili che abbelliscono la muratura esterna dell’abside furono cotte in un forno di cui sono stati trovati i resti a qualche centinaio di metri da qui. Poi ci accompagna all’interno, in una cappella laterale che è il corpo di fabbrica più antico della struttura, risalente all’Alto Medio Evo.
L’escursione è finita e il vento continua a soffiare forte, ma ora il cielo è terso.

Cosimo Buono