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Lungo i passi del bersagliere e della dama bianca

 Il bersagliere s’aggira attorno alla masseria ma non può entrarvi, la dama bianca cammina sui tetti in cerca di un modo per uscirne, ma resta intrappolata tra quelle mura. Erano tempi feroci quelli che li separarono per sempre, per mano di un padre diventato brigante per combattere i piemontesi.
Le loro ombre in pena hanno attirato i cammina-lettori, che percorrono sentieri fatti di terra chiara, di argilla, di ciottoli e di sabbia, risalendo uno dei tanti terrazzamenti marini affacciati sull’ampia e assolata valle del Bradano. 

Vanno a ritroso nel tempo, tra le alte spighe dorate, le nuvole rosse dei papaveri distese sulle graminacee, il profumo delle ginestre, il blu, il giallo, il viola degli altri fiori di maggio.

Attorno ai ruderi del passato, all’ombra di una vigorosa roverella, accanto all’odore selvatico di un fico, allo sgorgare dell’acqua fresca di fonte, attraversano soglie che conducono a quel mondo raccontato da don Ninì, alla vita dura dei braccianti agricoli e dei pastori, brutale come la siccita e la fame di chi ha poco da mangiare, dolce come i baci rubati a una bocca appena sbocciata e i sogni assaporati nelle notti d’estate, al calore dei canti e dei balli attorno al fuoco.
Risalgono la collina del vento di Grottole, in quello spazio di confine tra il bosco che appartiene alla natura e i campi che si è presi l’uomo, discendono in quel passato che si è perpetuato per quante generazioni si è perso il conto, con i suoi cicli stagionali senza quasi cambiare per niente, fino alla sua scomparsa improvvisa, avvenuta solo pochi decenni fa. Sembrano essere passati secoli tanto la vita degli uomini e delle donne è cambiata, eppure c’è un testimone che è ancora qui con noi a ricordarcelo, che quasi disperatamente cerca di salvare, almeno alla memoria, storie e antiche sapienze, raccontando a quante più orecchie possibili, bussando più volte alla membrana uditiva già logora di una generazione che dimentica in fretta.
Davanti agli occhi, le rovine della masseria di Antenòre mostrano, meglio di tutte le parole dette e scritte, il crollo di quel mondo di braccianti e di pastori, la fine per sempre di un’epoca e l’oblio dei suoi figli, che possono tornare soltanto se immaginati, alla stregua di ombre proiettate dalle loro tracce lasciate sul terreno, deboli o potenti a seconda di chi le guarda. Come i riflessi della luna d’estate negli stagni semisecchi che riportano in vita la dama bianca e il vento partito da chissà dove che tra le mani soffia una piuma di gallo, così bella che dev’essere senz’altro caduta dal cappello piumato del bersagliere. Spettri, entrambi, la dama bianca e il bersagliere, che s’aggirano senza pace in cerca di quell’amore che tutti gli uomini sognano e tutte le donne si aspettano. Quell’amore negato che rivive in noi ogni qualvolta ci sfugge dopo aver creduto di avercelo ormai in pugno. Quell’amore che al chiaro di luna riconcilia gli uomini con la natura e può finalmente far abbracciare quanti sono ancora innamorati.
Tracce, i cammina-lettori sono cercatori di tracce, di indizi per scoprire e comprendere la terra che circonda le città in cui viviamo, diventati moderni punti di partenza per raggiungere altre città, attraverso una rete sempre più veloce fatta di salti più che di passi. I cammina-lettori tornano, invece, sui propri passi e vanno lentamente perché le tracce si trovano soltanto nel breve spazio tra un passo e l’altro, si rivelano soltanto a chi è capace di fermarsi e di ascoltare.
E allora ascoltiamo insieme le voci di Nicola, di Salvatore, di Rossella e di Rosa, che si susseguono ognuna con la sua propria impronta emotiva da regalare alle parole di carta, come acqua che porta vita alla terra.
In groppa a una cavalla irrequieta, ascoltiamo così il suono cristallino e fresco dell’acqua che sgorga ancora dal pilaccio Malvinni Malvezzi, riparato sotto quell’arco verde costruito da un fico e da un noce, intrecciati per le fronde e per le radici; dissetiamoci oggi alla stessa acqua che spilla più in là, sotto un eucalipto, vicino alle modeste pareti che un tempo dovevano reggere l’importante masseria di Santa Lucia e la chiesetta che prega direttamente al cielo, attraverso le volte a crociera ormai sfondate.
Ascoltiamo il sibilo un po’ sinistro delle eliche, queste sì gigantesche, dei mulini a vento che macinano potenti dosi di energia elettrica e ci fanno sentire tutti dei piccoli Chisciotte della Mancia. E’ una cresta, larga e piatta: da dove svettano come grandi braccia che si agitano per salutare occhi affacciati da torri lontane; da dove guardare con una prospettiva nuova l’acqua di San Giuliano e le tre colline che annunciano Matera e poi, dall’altra parte, ai paesi del Basento, sospesi sulla bassa e sull’alta valle; dove raccogliere mucchi di aculei abbandonati da uno sfortunato porcospino.
Il timore della pioggia si rivela infondato e i cammina-lettori tornano al punto di partenza, accolti dal buon caffè di Casa Riccardi, che è proprio quello che ci vuole in questo pomeriggio gentile di maggio inoltrato, tra le palme svettanti e le dolci more di gelso nere che inebriano i palati e sporcano i vestiti.
Domani si pensa, lo aveva detto padrona Angelina prima di Rossella O’Hara.