Capo Palinuro

Il Monte Bulgheria, escursione con puntura

Nome curioso quello del Monte Bulgherìa. In esso c’è una delle poche tracce lasciate dall’arrivo di coloni bulgari nel Cilento durante l’Alto Medioevo. La sua sagoma imponente incontra lo sguardo incuriosito di chi osserva il Cilento dalle montagne lucane, oltre il golfo di Policastro. Per gli abitanti del Cilento disegna un leone addormentato, posto a guardia di quella terra.

L’obiettivo è raggiungere la cima a piedi in giornata, perciò partiamo da Matera alle 5:30. In sei raggiungiamo Potenza e ci uniamo al numeroso gruppo del Cai del capoluogo lucano e di Melfi, che ha noleggiato un autobus per trasportare la comitiva fino a Poderìa, frazione di Celle di Bulgheria. In totale da Matera occorrono quasi 250 chilometri di strada per giungere ai piedi della montagna.

Siamo sul versante nord, davanti alla facciata rosa della chiesa di Santa Sofia. Mentre infiliamo gli scarponi e riempiamo le bottiglie diamo uno sguardo intorno a noi: ulivi insolitamente alti convivono curiosamente con i castagni e le felci a 214 metri di quota. Dopo aver superato il cavalcavia sulla strada provinciale, inizia la salita verso lo stretto sentiero che s’infila nella Valle Cupa.

La fatica e l’umidità dell’aria mi fanno sudare, ma resto incantato dalla rigogliosa lecceta in cui procediamo a zig-zag. Chiudo la lunga fila insieme a Renato, io che prendo appunti e lui che fa le foto. Frassini, carpini, corbezzoli, aceri, biancospini arricchiscono il bosco insieme ad altre piante, tipiche della macchia mediterranea, come il pungitopo, la salsapariglia, l’alaterno, l’erica arborea, l’asparago.

C’è un po’ di agitazione nel gruppo, mi dicono di fare attenzione a un nido di vespe. Qualcuno si ferma davanti a me perché forse è stato punto. Mi fermo anch’io per bere un sorso d’acqua quando sento una fitta dolorosa nel palmo della mano: qualcosa sporge dalla pelle sotto la quale si è infilata. La tiro via e la getto istintivamente senza capire di che cosa si tratta. Il bilancio dell’attacco delle vespe o quali insetti fossero è di cinque persone punte: oltre a me, zio Giovanni e Rossella, Rudi Padula e un’escursionista potentina.

La borsa del pronto soccorso del Cai entra in azione e senza rallentare troppo il gruppo riparte. Lo stick di ammoniaca contiene il gonfiore, ma la mano continua a farmi male e devo rinunciare al bastoncino.

Per un breve tratto intersechiamo la strada sterrata che da Celle di Bulgheria porta comodamente sul monte, quindi riprendiamo il sentiero segnato del Cai.

Il muro di uno iazzo delimita la sommità della lecceta: l’impegnativa salita è finita, siamo sull’altipiano, dove facciamo una pausa. Intorno si odono le campane delle mucche al pascolo, un’oasi di grandi ontani vegeta a destra del sentiero.

Riprendiamo il cammino lungo una carrareccia che passa accanto a uno iazzo. A sinistra del muro di cinta c’è un bellissimo pozzo rurale. Più avanti incontriamo un altro pozzo sulla sommità di una cisterna seminterrata, un po’ come quelle disseminate sulla murgia. Siamo in un territorio carsico, come spiega anche uno dei tanti cartelli didattici lungo la via.

La vista del mare in lontananza è uno spettacolo, riconosciamo Capo Palinuro. Una mucca bianca sembra messa a custodire il paesaggio. Più avanti assaporiamo le more che si affacciano invitanti sulla carrareccia. Alcuni pastori sono seduti a mangiare intorno a un tavolino, il loro maremmano ci abbaia contro senza avvicinarsi troppo.

La carrareccia sale con lieve pendenza e dolce è il profumo della lavanda selvatica. Attraversiamo un castagneto, superiamo il rifugio Tozzo del Moio. Sulla sinistra in basso i paesi di Celle di Bulgheria e Roccagloriosa, poi il fiume Mingardo con il suo letto bianco mentre le cime del Cervati e del Gelbison sono nascoste dalle nubi. Prendiamo un sentiero protetto da una balaustra di legno, che scende in un avvallamento ricoperto di lecci. Poi la via riprende a salire, fino a una lastra di pietra ovale sistemata come una tavola. Il sentiero si fa ancora più impegnativo, con il fondo sempre più pietroso e porta a tre cime consecutive, tutte intorno ai 1220 metri o poco più. Sulla prima, in una nicchia, è riposta la statua in gesso di San Francesco che tiene in mano una colomba bianca. Sulla seconda un mucchio di pietre. Per la terza il sentiero si fa ancora più arduo, per la pendenza e il fondo pietroso, ma all’arrivo ci attende uno spettacolo incomparabile: il golfo di Policastro che si estende in tutta la sua bellezza di forme e di colori. Le nuvole in movimento si comportano come un sipario che di tanto in tanto si apre per consentire allo sguardo di seguire la linea di costa, oltre il Cristo di Maratea fino in Calabria, all’isola di Dino, mentre le lontane montagne dell’Orsomarso restano nascoste dal cielo parzialmente coperto.

Ci fermiamo per il pranzo. E’ un momento di condivisione e di scambio: qualcuno offre del formaggio, salame piccante, focaccia, pasticcini e vino, liquore di prugnolo, caffè.

Vincenzo osserva soddisfatto il mondo dall’alto, mi indica il fiume Bussento che nasce dal Cervati spiegandomi che a un certo punto si inabissa per poi sbucare copioso di acque alcuni chilometri dopo, a Morigerati.

Sotto di noi la montagna è molto scoscesa. Un pastore si muove tra le rupi con la stessa agilità delle sue capre. Quando ripartiamo e abbiamo cominciato la discesa sul versante sud della montagna, dietro di noi appare una scena che ci lascia meravigliati: le capre ci osservano dall’alto, le loro sagome scure si stagliano contro il cielo insieme a quella del pastore appoggiato al suo bastone.

Ci conduce Rudy Padula, mentre dietro chiude Tonino Aicale. Inizialmente scendiamo seguendo un percorso libero, che s’infila di nuovo nella lecceta. Il fondo è aspro e a tratti insidioso, sul terreno umido qualcuno scivola, ma senza farsi male per fortuna. Mantenendoci leggermente a destra, raggiungiamo una radura tra le rocce, dove da lecci bruciati forse per un remoto incendio riparte la vita nei nuovi polloni. Poco più sotto di quest’area particolare intercettiamo il sentiero che scende sul ripido pendio.

La ricetrasmittente che li mantiene in contatto dà qualche problema, ma il gruppo si ricompatta quando Rudy torna indietro sui suoi passi: con il gps in mano sta cercando di ritrovare il sentiero che sembra smarrito. Eccolo, oltre un cancelletto di legno chiuso dai pastori.

Suggestivo è anche questo versante più soleggiato, dove prosperano il lentisco e l’elicriso. La discesa passa accanto a iazzi e abbeveratoi per gli animali; passiamo sotto un’alta parete calcarea a strapiombo e ci rinfreschiamo all’acqua che cade direttamente dalla terra e dal muschio.

Sulla carrareccia, ormai vicino al paese, due asini ci osservano incuriositi e forse un po’ impauriti. L’autobus ci aspetta accanto al campo sportivo del paese. Dopo una giornata intensa, di fatica e di bellezza, non ci resta che fare una sosta al bar per l’ultimo momento conviviale davanti a un boccale di birra. La mano mi fa ancora un po’ male, ma ne valeva la pena.

Cosimo