Partenza dal piazzale antistante la chiesa-santuario della Madonna della Palomba, tanto cara ai nostri nonni e ancora piena di fascino per tutti coloro che vi si recano per una preghiera o per una semplice visita turistica.
Poche persone al primo turno di escursioni, ma tanta curiosità e tanta voglia di stare a contatto con la natura. Ci avviamo verso la chiesa dello Spirito Santo, e si collega subito a questa prima tappa il ricordo personale della mia cara nonna che ci conduceva presso questa piccolissima chiesetta per pregare e ringraziare il Signore.
Tramite un corridoio di pietra, superiamo la chiesa e ci avviciniamo al primo emozionante momento della passeggiata: una breve scalata rocciosa. La superiamo, grandi e piccini, con entusiasmo i più piccoli e con curiosità e con qualche tentennamento noi grandi.
Mi colpisce come nei più piccoli la voglia di avventura sia ancora più forte che negli adulti, forse spinti da una certa beata incoscienza la cui mancanza rende noi grandi un po’ più monotoni e prevenuti nel rapporto con la natura e con la vita stessa. I bambini si sorprendono facilmente e con la stessa facilità si sentono forti e contenti delle mete raggiunte… pur con la stessa facilità si stancano ma hanno sempre slanci di energie che fanno pesare i nostri anni sulle nostre gambe.
Si giunge sull’altipiano e si scruta già di lontano il campanile della cattedrale, in uno splendido scorcio che racchiude un angolo dei sassi tra le pareti rocciose del caratteristico canyon del torrente gravina.
Penso a chi veniva da lontano e con questo nostro stesso passo, per secoli venendo a Matera, aveva questo stesso primo colpo d’occhio avvicinandosi al paese.
Mi catapulto nel passato, come mi viene spesso facile quando sono immerso in tanta naturale ambientazione, e non riesco a non immaginare i passi mossi anche di notte su queste stesse rocce e tra anfratti e arbusti, passi stanchi di chi viene da “vicino” (per le distanze che oggi noi siamo abituati a calcolare) ma che aveva a quel tempo solo un mezzo di locomozione che erano le proprie gambe o qualche animale da soma o poco più, e che misurava in lunghe ore o giornate intere questi spostamenti in mezzo alle campagne o ai boschi della nostra regione.
Così pure doveva camminare, forse furtivo o forse sicuro e spavaldo con le sue armi in dosso, il famoso Chitaridd, mentre tornava al suo nascondiglio appena un secolo e mezzo fa, su questi stessi sentieri. Dipinto come un feroce brigante, o forse solo figlio del suo tempo e della fame o della violenza di un padre duro e severo, Chitaridd era figlio di una società che viveva di stenti nonostante l’unità appena raggiunta dalla nazione. Una persona pronta alla violenza e a cui non faceva specie fare fuoco che avesse di fronte indifferentemente un animale o un uomo.
In questo antro naturale dello jazzo vecchio, tra fichi d’india enormi, riparato da occhi indiscreti, trascorreva ore al buio, nel silenzio, nella solitudine..
Resto qui, dopo l’appassionante racconto di Cosimo e la pittoresca ambientazione ricreata da Nicola: una cesta, un piatto vecchio con gli ingredienti di una “cialledda fredda”, due fichi secchi, un’oliera della stessa epoca di Chitaridd, ricavata da un corno cavo e un tappo in osso, resto qui a guardia della grotta incustodita e dei preziosi reperti utilizzati per l’ambientazione, il silenzio mi avvolge.
Mi sporgo dalla veloce via di fuga della grotta, affaccia dritto sulla gravina e guardando in là a sinistra, intravedo il convento di santa Lucia, Porta Pistola, il campanile della chiesa madre…il rumore dello scorrere del torrente e il richiamo di alcuni volatili sono gli unici suoni che si possono ascoltare e forse, d’inverno, nel buio freddo, il sibilare del vento che per correnti viaggia nel canyon a scavare la calcarenite in grotte e curve sinuose.
Qui, senza fuoco, il brigante-assassino, consumava la sua solitudine, la rabbia verso la società, e chissà quali altri sentimenti, nascosti a chi oggi calpesta questa stessa terra, questi stessi ambienti scuri e rustici.
Nel silenzio ritrovo anche io in questa grotta una sorta di pace solitaria, guardo in alto dall’ingresso principale e vedo il cielo, e arbusti e piante che un tempo forse più fitte nascondevano completamente l’entrata.
Voci in lontana mi annunciano l’arrivo del secondo gruppo, più numeroso del primo, curioso e sorpreso della scoperta di questa grotta nascosta alla vista a lungo raggio dall’altopiano.
Il cammino riprende tra mille interessantissime soste in cui Nicola affascina grandi e piccoli con le sue appassionanti spiegazioni sulle caratteristiche di questa o quella specie di insetti o di piante.
Giungiamo allo Jesce dove ci attende un piccolo gruppo di scout vicino al ponte da loro costruito per attraversare il torrente. I ragazzi e ci aiutano a muovere bene i passi sulle assi tra l’emozione forte dei bambini gasati dal passaggio e qualche sorriso compiaciuto dei genitori, armati di fotocamere per l’occasione.
Affrontiamo la salita che ci condurrà allo jazzo Gattini e lì finalmente i bimbi più stanchi si riposeranno….. il tempo giusto per prendere gli aquiloni e cominciare a giocare senza sosta.
Anche io prendo il mio aquilone, tra qualche sguardo incuriosito di bambini e qualcun altro sorpreso degli astanti più adulti..
vola l’aquilone,
portandosi in alto,
quasi a toccare il cielo
e sul filo,
viaggiano sogni di grande e di bambino
un filo di speranza che sale verso l’azzurro.
dimentico i miei anni e lascio volare il cuore
con la magia di quel disegno colorato che leggero
si eleva sopra le nostre teste.
Naso all’insù
scrutando colori e vibrare di emozioni
mescolarsi in una festa pacifica
a cui tutti anelano
per un mondo migliore.
Il sorriso dei bambini,
le loro corse per mettere in volo
mi danno coraggio,
forza per sentirmi libero
per lasciare che i miei capelli bianchi
non fermino mai sogni e speranze del cuore.
Vola l’aquilone
vola il mio eterno essere bambino
e vola con quello
il sogno di un mondo migliore.
La settima festa degli aquiloni termina con il brusio delle famiglie che corrono ai bus per il ritorno a casa, e quella sensazione di pace e serenità con se stessi che solo il passionale tramonto di una splendida giornata come questa, possono regalare.
“a mogghij a mogghij all’onn c’ van’” recita l’antico proverbio materano e con questo resta l’augurio di tante passeggiate e tante corse e tanti voli di aquiloni da fare ancora assieme, perché il Peter Pan che è in noi non muoia mai e restiamo sempre pronti, come lo sono i bambini, a stupirci del mondo e di tutte le sue cose ed accettarlo così con naturalezza e semplicità, illuminando i nostri occhi con le piccole piccole cose.
(cronaca del giorno 4 ottobre 2009, Parco della Murgia Materana)
Antonio Guanti