Un luì piccolo è venuto a danzare sui rami di un vicino lentisco. Gli inglesi lo chiamano con un altro termine onomatopeico: chiffchaff. Ogni uccello impiega un repertorio di versi differenti per comunicare, così il pettirosso cambia il verso a seconda se vuol marcare il territorio oppure attirare una femmina. Gianfranco ci spiega che il pettirosso è in grado di tirar fuori una gamma di variazioni sorprendentemente vasta per cui il suo verso consueto muta in continuazione, un po’ come le variazioni su un tema musicale da parte di un jazzista.
Sentiamo la capinera, il merlo, la ghiandaia. Quest’ultima, detta guardiano del bosco perché con il suo verso garrulo lancia per prima l’allarme all’arrivo di intrusi, è capace di imitare il verso degli altri uccelli, sicché può succedere di sentire il verso di un nibbio senza scorgerlo e credere che il rapace sia nascosto da qualche parte e invece si tratta della ghiandaia.
Un cormorano disturbato dalle nostre voci si alza dal fondo della Gravina nel suo volo lineare. Vediamo in volo prima una poiana, lontana ed alta sulla Murgia, poi una coppia di corvi imperiali a mezza costa del canyon verdeggiante.
L’escursione comincia lentamente tanto da consentirci di fermarci quasi ad ogni passo nell’ascolto e nell’osservazione. Un escremento probabilmente di volpe, messo in dubbio però dalla mancanza di resti di ginepro di cui è ricca la dieta. Più avanti vedremo un escremento fresco di istrice. Di un altro povero istrice restano sul sentiero alcuni ciuffi del pelo setoloso: è servito da pasto per un predatore.
Lasciato il brecciame dove correvano i binari delle Ferrovie Calabro Lucane, volute anche dal Senatore Domenico Ridola nel 1911, ci dirigiamo verso il margine destro della Gravina. Lungo il sentiero la nostra guida rovista tra i sassi e trova un pezzo di quella che doveva essere stata un’ascia o un’accetta. La pietra lavorata è rotta e dell’arnese che fu resta solo un quarto.
Nei tratti di fango numerose sono le impronte dei cinghiali. L’intera escursione è accompagnata dalla presenza ingombrante e minacciosa dei cinghiali. Di fatto non li abbiamo visti ma li abbiamo temuti: l’attacco di un cinghiale è difficilmente parabile. Riparatevi dietro dei tronchi o degli arbusti oppure frapponete tra voi e l’aggressore lo zaino, suggerisce Gianfranco che richiama la nostra attenzione sul forte odore di selvatico che si avverte distintamente in alcuni punti del nostro passaggio, tra lentischi, terebinti, spinachristi, fillirea, ginepri ed altri arbusti. Afferma di saper distinguere l’odore del cinghiale da quello dell’istrice, l’odore del tasso da quello della faina. Io sento forte l’odore dolciastro dell’elicriso calpestato dai nostri passi oppure, più avanti, nei pressi di Cristo la Selva, l’odore eccessivo della ruta.
Cristo la Selva è la contrazione di Cristo Crocifisso al ponte della Selva. Gianfranco insiste nel raccomandarci di chiamare i luoghi con i loro nomi propri e di non accontentarci dei nomi di recente invenzione, a volte veri e propri parti della fantasia. Di fronte a noi è la lama nota come Villaggio Saraceno, ma il suo nome è Lama di Vitisciolo o Visciola e la chiesa rupestre detta di San Luca era in realtà chiamata Santa Maria al Visciolo. Anche molte notizie diffuse e ripetute da alcune pubblicazioni non corrispondono al vero: le due loggette ai lati della chiesa rupestre non sono parti di un cenobio appartenuti a fantomatici monaci, ma di una foresteria realizzata nel ‘700 per accogliere i fedeli che sempre più numerosi accorrevano al santuario, come è testimoniato chiaramente dallo storico Nicolò Domenico Nelli.
Scatto una foto alla facciata della chiesa rupestre di difficile accesso di San Niccolò alla Murgia, erroneamente nota come cripta del Saraceno. Gianfranco non vuole dirci molto dei nomi originali dei luoghi che attraversiamo e fa finta di non ricordarli. Quando stamattina alle otto e un quarto siamo arrivati con le macchine nei pressi di Masseria Passarelli, la nebbia che copriva il paesaggio sembrava messa lì apposta da Gianfranco perché opponesse un ulteriore ostacolo al riconoscimento ed alla memorizzazione dei luoghi che poi abbiamo attraversato. Poi la nebbia si è rapidamente diradata sotto i raggi di un sole piuttosto caldo per essere a metà novembre e lontano all’orizzonte, a monte del Vallone della Femmina, è comparso il candido ripetitore squadrato del telefono (che è diventato anche il toponimo dell’area su cui sorge).
Gianni mi fa notare come la linea di demarcazione tra lo strato di calcarenite e quello più antico di calcare presenti un salto improvviso: segno che siamo davanti ad una faglia. Mi attardo a fare qualche foto e resto indietro quel tanto che basta per non trovare il percorso che gli altri hanno fatto per raggiungere un fossile di riccio incastonato nella parete scoperta da un recente crollo. Proprio sotto alla parete incomincia l’antico tratturo, ormai quasi indistinguibile, che scende ripidamente giù alla Gravina.
Una delle difficoltà dell’escursione odierna è data dai pendii scoscesi che non ammettono distrazioni se non si vuol finire rovinosamente nel burrone. La concentrazione richiesta nel procedere è elevata e costante per evitare di mettere il piede in fallo, ma anche per trovare nei tratti più scomodi l’appiglio necessario per arrampicarsi.
In fondo alla Gravina vegeta una fitta popolazione di lecci. Grazie alle recenti giornate di bel tempo il livello del torrente è sufficientemente basso per consentirci di passare attraverso alcune rocce emergenti, che restano però umide e perciò assai insidiose.
Prima sudata per risalire la china della Gravina battendo con dei sassi per allontanare eventuali cinghiali nascosti. Visitiamo una prima grotta naturale ad imbuto, dove soffia costantemente il vento avendo essa due aperture, una più piccola e l’altra più grande. Una mantide stecco attira la nostra attenzione e si lascia ritrarre dondolandosi davanti all’obiettivo della macchina fotografica. Il nostro preda-t-tore in realtà cerca di mimetizzarsi ondeggiando al vento come un arbusto. L’addome è arricciato ed ha persino assunto la colorazione rosa dei fiori del timo.
Dopo aver percorso il crinale sulla destra orografica del vallone, passando attraverso la intricata macchia mediterranea e un foro naturale nella roccia, raggiungiamo alcune ampie cavità nel calcare, dove i depositi di borre dei rapaci ricche di ossa di topo rivelano la tranquillità del luogo dove i pennuti possono stare indisturbati. Incrociamo all’improvviso un gheppio prima e un colombaccio dopo che alla nostra vista si spaventano, sorpresi di trovarci lì dove invece sono abituati all’assenza dell’uomo.
Siamo appena in otto eppure sembriamo tanti e dobbiamo fare attenzione per restare uniti e non perderci di vista, facendo attenzione a non lasciare un pezzo di orecchio o di palpebra tra le spire della salsapariglia, meglio nota (giustamente) come strappabrache. E’ decisamente una delle escursioni di impegnative di tutto l’anno nonostante le condizioni meteo particolarmente favorevoli: sudiamo molto e l’acqua che ci siamo portati dietro è appena sufficiente per dissetarci. Ci fermiamo a mangiare in una “veranda” sul vallone che fa parte di un complesso rupestre come tanti, ormai da tempo abbandonati. Lo spettacolo del vallone che volta a destra è grandioso mentre resto a torso nudo al sole per lasciar asciugare la maglia inzuppata di sudore. Nonostante acceleriamo e saltiamo alcune parti previste, arriviamo alla grotta della Femmina che è troppo tardi per esplorarla. Ci dobbiamo accontentare di un assaggio di pochi metri strisciando sul fondo scomodo, umido e pietroso. E’ difficile arrivarci e probabilmente il percorso tortuoso scelto da Gianfranco non è quello più breve. Proprio non sarà facile tornarci da soli.