Gole di iannace e serra di crispo: 09 maggio 2010

Si fa “presto” a dire montagna: sveglia all’alba e partenza di una carovana di macchine a raffica, una dietro l’altra, appena ognuna raccoglie a bordo i trekker assegnati ad ogni autovettura. Il viaggio è lungo ma tutto sommato la montagna ce l’abbiamo vicina (o forse è sempre tanta la voglia di andarci che i chilometri li mangiamo come fossero stuzzichini per passare il tempo a tavola!) e segnaletica e incroci permettendo, poco dopo le 9 siamo già al punto di partenza di una nuova giornata da passeggiare.

Le gole sono fresche, il sole non arriva facilmente né per la fitta faggeta che le copre né per le alte pareti selvagge che le formano; qualcuno ha bisogno di un indumento più pesante per poter cominciare l’escursione.
Ci accoglie un impetuoso borbottìo di acqua: sono le rapide che vengono giù dalla montagna e attraversano le gole. Salti vivaci e a tratti violenti di acqua ghiacciata proveniente dalle cime, acqua limpida, cristallina, che disegna, salta, mangia rocce e trascina detriti.
In questo logorio, questa lotta della natura, pure rimane affascinante l’irruente forza incolore che non conosce ostacoli e nasconde una forza strepitosa e inimmaginabile.
Ci sono dei ponti che aiutano la risalita nelle gole: grossi tronchi fissati da una sponda all’altra e grosse tavole inchiodate su quelli per un attraversamento comodo e sicuro.
Passiamo da una sponda all’altra in un percorso tortuoso quanto coinvolgente. Faggi alti e verdeggianti, in fitte famiglie, sembrano ancora più alti circondati come siamo da queste ciclopiche pareti, mi viene da immaginare enormi esseri che con un paio di dita abbiano potuto costruire questi muri di roccia millenaria, creature impressionanti tra mitologia e fantasia… ma non sono più un bambino.. e neanche le nostre mascotte forse riuscirebbero a pensare cose così assurde.
A proposito, Luca e Sofia si fanno strada ormai da soli e sono in testa al gruppo, tirando dritti come treni, facendo sfigurare chi ritiene di avere riserve energetiche sufficienti per affrontare una giornata come questa e che invece si ritrova, alla fine della stessa, esausto e sfinito con le creauture ancora in forza di camminare e osservare.
Salendo, le pareti si illuminano di raggi di sole confortanti che annunciano di attenderci appena più in alto e il borbottìo impetuoso e prepotente si trasforma in docile scrosciare, segno di una pendenza minore e di un andamento del corso d’acqua più lento e meno violento.
Usciti dalle gole siamo a piano Iannace, una prateria di quelle viste in film americani, verdi e lussureggianti e puntellate di minuscoli e colorati fiori… non si può che gettarsi in terra e dare sfogo al fotografo che è in noi, incuranti del fango e dei “ricordi” di qualche amico a quattro zampone che viene qui per cibarsi (mucche e cavalli).
Il sole è deciso e il cielo sembra dipinto da Luca, per come ci si presenta limpido e sincero. Guardiamo alla nostra sinistra e vediamo i pini loricati che ci attendono, immobili e severi. Facciamo una sosta per scaldarci un poco e per godere di questo bacio di primavera.
Pino ci da un poco di informazioni e alcune curiosità sull’etimologia del nome di questo massiccio che ci sta tanto a cuore, poi ci annuncia che troveremo diverse varietà di fiori ad accoglierci durante il tragitto a venire, infatti dopo pochissimi passi c’è una tenera piazza di verde puntellata di narcisi.
È la festa della mamma e i pargoli ci deliziano con le loro poesie dedicate alla loro… il loro tono, tipico delle parole ripetute e ripetute fino ad averle imparate a memoria, mi ribaltano nella mia infanzia… e mi sembra che quegli anni siano uguali davvero per tutti… senza distinzione di generazioni.
Mi viene da sorridere all’imbarazzo e a qualche incertezza dei piccoli declamatori e nel frattempo ne sono intenerito, così come leggo dai visi e dagli occhi dei miei compagni di viaggio.
Riprendiamo il nostro cammino, diretti alla nostra meta: Serra di Crispo.
Chiazze di bianche isole di neve, ancora aspettano un caldo più convinto per finire la propria stagione, svelando quello che durante i mesi invernali hanno serbato nel silenzio e nella quiete che pochi o pochissimi di noi uomini, riesce ad interrompere quassù.
Guardo i pini loricati e mi chiedo cosa fossero centinaia di anni fa queste terre e queste rocce. Molti di quegli alberi, molti scheletri di quelli che lo furono, hanno lunghissimi anni sulle spalle e hanno visto correre tempi e storia sotto le loro chiome, venti nuovi e diversi tra i loro aghi… potessero parlare!!
A modo loro lo fanno…
i loricati..
Questi corazzieri del massiccio del Pollino, immobili e imperturbabili guardiani delle valli intorno, di questi declivi, di questi boschi, di quelle gole dalle mura megalitiche, di quei mille rivoli di acque gelide e guerrigliere, hanno nei loro rami, nelle fessure strette delle maglie delle loro corazze, pezzi di storia nascosta, fagocitata in lunghi mesi di solitudine e di statico attendere.
Soldati dal fascino particolare, fedeli alla loro missione fino a restare irti e presenti pure dopo morti, come statue di un esercito di creta.
Bianche e lunghe braccia, che cercano di resistere al tempo, pur dopo che la vita le ha abbandonate, braccia forti che cedono solo quando ogni brandello è marcito, sfibrato dal gelo, dalla neve, dall’acqua, dal vento di centinaia di migliaia di lunghi giorni.
 
Tra neve e fango saliamo e, assieme ai nostri corazzieri, ci attendono raffiche di vento tipiche della cresta e raggi di sole incoraggianti. Così giunti sulla vetta, ci fermiamo e godiamo del paesaggio che i giganti secolari guardano e custodiscono.
Manca il fiato e non è per le fatiche della salita, ma per gli spazi che si perdono a questa nostra vista… e non basterebbero mille vecchi rullini né centinaia di “giga” di memoria digitale, per conservare tutto quello che solo nel cuore riesce a restare impresso.
 
La montagna paga sempre ogni suo minimo debito con grande generosità, ogni passo, ogni goccia di sudore sulle sue pendici, si tramuta in paesaggi, colori, odori, emozioni che superano di gran lunga ogni fatica.
Ritorniamo a Pitt’ accurc’, ancora cercando di immortalare parte di quei colori, di quei disegni che perderanno la loro vita dentro le nostre fotocamere, quella vita che ora si dona devotamente a noi.
Pranziamo accomodati sulle fresche radure imperlate di fiori di ogni colore e di molteplici orchidee, e come rapiti, cadiamo in una catalessi generale, come dovessimo risvegliarci da un mondo fantastico per ritornare alla realtà.
Ci raduniamo dopo un bel riposo per riprendere la discesa, carichi di altre emozioni, fissate in questa pausa di sedimentazione e di riflessione e scendiamo fino a piano Iannace, dove ci concediamo un’altra pausa, coccolati dal sole e dai suoi rassicuranti raggi primaverili.
La musica mi accompagna sempre e con l’armonica cerco fissare a modo mio quello che la montagna oggi mi ha regalato, le note vengono da sé mentre guardo le cime e i corazzieri a guardia di quelle.. sento dei brividi, e sono sicuro che non è il vento, ma qualcos’altro che vibra l’anima.
Le note sono un po’ sonnifero un po’ diletto per i miei compagni, qualcuno ricorda tempi più verdi, qualcuno è riuscito ad apprezzare meglio il paesaggio, corredato dalle allegre vibrazioni di un’armonica.. io ho cercato di dire grazie alla montagna e di sentire con lei qualcosa che porto dentro e che tramite la musica si trasmette al mondo che mi circonda.
È ora di tornare, eppure, ci concediamo una deviazione al santuario della Madonna di Pollino, tristemente lasciata sola nella sua mistica chiesa di roccia, contorniata da infrastrutture che hanno molti anni ma poca vita. Rientriamo facendo della strada asfaltata a piedi e poi portandoci sul sentiero di questa mattina, il sole corre a dormire, ma anche oggi noi lo seguiamo andando via dalla montagna con altre incommensurabili ricchezze.
 
Antonio Guanti