Quattro passi, tra natura e matematica

Natura e Matematica è un binomio inconsueto, per molti strano. Eppure per qualcuno “pittoresco”…

Ore 8.15 di Giovedì 14 Luglio 2011: un gruppo ristretto di sette trekker, gli intrepidi, parte per una nuova avventura, un nuovo assalto (non alla Bastiglia). Tra loro ci sono anch’io. In realtà il numero sarebbe dovuto essere maggiore, per la precisione dieci, ma le incertezze delle condizioni meteorologiche scoraggiano qualcuno che nel frattempo ha cambiato idea e preferisce seguire un percorso più tranquillo. Nonostante le previsioni meteo non favorevoli, decidiamo comunque di andare e sfidare il tempo atmosferico. Anche a me è balenato qualche dubbio sull’opportunità di seguire il programma stabilito il giorno prima. Tuttavia, il desiderio di esplorare nuove realtà, percorrere nuovi sentieri, anche difficoltosi come quello attrezzato del passo delle Scalette, è troppo forte, non mi ferma e, dunque, sono decisa ad andare fino in fondo, ovviamente finché le condizioni lo permetteranno.
L’itinerario scelto prevede di fare “quattro passi”. Detta così, sembrerebbe un’escursione da poco, ma in realtà significa raggiungere e attraversare quattro passi alpini, nell’ordine: il già citato Passo delle Scalette, quello di Laussa, quello di Antermoia e il Principe.
Da Vigo con la funivia raggiungiamo Ciampedie e, successivamente, seguendo un agevole sentiero nel bosco, il rifugio Gardeccia. Da qui proseguiamo verso la nostra prima meta. Il tragitto non presenta particolari difficoltà, nonostante una parte sia sulla pietraia e occorre fare molta attenzione per evitare di scivolare. Camminiamo sostanzialmente tranquilli, anche se il nostro sguardo è diviso tra cielo e terra: un occhio controlla il percorso ed il terreno, l’altro scruta il cielo nella speranza che i nuvoloni sopra di noi si sparpaglino o si allontanino.
Dopo una secca svolta a sinistra, ci ritroviamo di fronte alla rampa che porta al primo passo. È una salita da affrontare a quattro zampe, mani e piedi. La fatica e l’affanno si fanno sentire, però imparo presto a convivere con essi, per cui, superata la fase d’adattamento, riesco ad affrontare la salita con uno spirito diverso, ad apprezzare e godere di più la passeggiata in corso. Può sembrare strano, ma ad un certo punto provo gusto ad arrampicarmi ed il disagio diventa divertimento: è una bella sensazione muoversi a quattro zampe come gli animali o come i bambini piccoli prima di imparare a camminare. In effetti è come tornare bambini, quando ci si arrampicava dappertutto, in particolare sugli alberi.
Dal momento che ci aspettano 500-600 m di dislivello su un tratto impegnativo, sono d’obbligo ripetute pause, non solo per rifiatare, ma soprattutto per ammirare il panorama. Di fronte a noi c’è la meravigliosa Val de Vajolet, sovrastata da un cielo in continua trasformazione, con nuvole molto volubili e mobili, dalla forme più strane che coprono e scoprono il cielo, alcune che salgono dal basso. Mentre camminiamo su roccia pura senza vegetazione, di fronte, invece, c’è il verde della vallata e del suo bosco.
Verso la fine della salita, incontriamo il tratto attrezzato con corde d’acciaio, maniglie e altri punti d’appoggio che agevolano il nostro prosieguo. Poca cosa, ma è meglio di niente.
Finalmente giungiamo al nostro primo traguardo. A me sembra di non aver impiegato molto, che il tempo sia quasi volato e che con esso anche noi fino in cima.
Purtroppo qualche secondo dopo il nostro arrivo al Passo delle Scalette (2416 m), le condizioni atmosferiche che finora ci hanno graziato, non reggono più e incomincia a piovere. Neanche il tempo di gioire e gustare la meta appena raggiunta (la più difficile), e dobbiamo attrezzarci per continuare sotto la pioggia. C’è chi apre semplicemente il proprio ombrello-bastone, chi indossa la giacca a vento e copre lo zaino, che indossa la mantella impermeabile sopra lo zaino da assomigliare ad un dromedario, chi indossa la mantella sotto lo zaino per avere più libertà di movimento (come me): ognuno in maniera differente provvede ad equipaggiarsi come può per ripararsi dall’acqua che scende giù.
Abbigliati in modo adeguato, riprendiamo il cammino, che prevede un breve tratto pianeggiante lungo la Val de Laussa e poi un altro in salita per circa 300 m di dislivello per raggiungere il secondo passo, quello di Laussa (2711m). Anche per questa ascesa dobbiamo fare uso di tutti gli arti a nostra disposizione, inferiori e superiori.
La pioggia, però, si fa più insistente e per continuare a salire servono più attenzione e concentrazione perché il rischio di cadere è maggiore, dal momento che la roccia ed il terreno bagnati sono molto scivolosi. Ovviamente mi diverto meno di prima, ma non desisto e sono ancora convinta di voler proseguire.
Il cattivo tempo, comunque, ci costringe ad apportare una variazione al programma, per cui dal Pas de Laussa, anziché procedere verso quello di Antermoia, deviamo verso il laghetto di Antermoia per raggiungere il più vicino rifugio, quello di Antermoia (2497 m).
Come la pioggia aumenta la propria cadenza, così anche il nostro ritmo diventa più veloce e, in un batter di ciglio, giungiamo presso la baita, finalmente all’asciutto. Ormai sono bagnata come un pulcino da capo a piedi, perché, nel frattempo, alla mantella, a causa della sua ridotta praticità in situazioni simili e limitata libertà di movimento che comporta, ho sostituito la giacca a vento che, però, mi ripara solo la parte superiore del corpo, mentre i pantaloni si sono inzuppati. Dentro il rifugio cerco di asciugarmi il più possibile e di ricaricare le batterie. Oltre al solito panino, mi aspettano una buona panna cotta con i frutti di bosco che sono una delizia e un caffè nero bollente per riscaldarmi.
Dopo la breve pausa pranzo, zaini in spalla ripartiamo. Anzi no. È d’obbligo la rituale foto di gruppo, davanti al lago (direi conchetta) di Antermoia.
Pensando che la pioggia abbia cessato di cadere, riprendiamo il cammino senza protezioni, ma dobbiamo ricrederci e riequipaggiarci in versione pioggia. Per fortuna, dopo qualche minuto, riusciamo definitivamente a riporre nello zaino giacche, pile, mantelle, ombrelli e copri-zaini e raggiungere il nostro terzo passo: il Pas de Dona (2516 m), diventato l’ultimo. Con la variazione di percorso, infatti, i valichi si sono ridotti a tre, ma a nessuno ciò importa e iniziamo, così, la nostra lunga discesa verso la località Mazzin (1372 m), termine della nostra escursione.
Liberatici della preoccupazione pioggia (ormai “è scampato”), ci liberiamo anche della roccia e delle montagne lasciandole alle spalle, per immergerci in una lussureggiante vallata: la “Val de Udai”, il cui intenso colore verde contrasta fortemente con quello della roccia. Alla vista di questo panorama ci rinfranchiamo e risolleviamo lo spirito dopo la fatica e la pioggia della mattinata. La discesa è ampia e, soprattutto, dolce, per cui è molto piacevole andar giù.
Ad un certo punto, sulla distesa verde, si intravede una macchia di colore marrone chiaro: non è terreno, perché si muove. È un essere vivente, finalmente! È una marmotta! E non è l’unica. Girando lo sguardo intorno, ci accorgiamo che nella distesa davanti a noi ce ne sono tante e comincia così la”caccia alla marmotta“, o meglio tentiamo di avvicinarci cautamente a questi esserini per vederli più da vicino e, ovviamente, per ottenere un bel ricordo fotografico. Incontri così ravvicinati in passato non ne ho avuto: l’anno scorso vidi alcuni esemplari nei pressi di Col Rodella, ma ad una decina di metri di distanza. Oggi, invece, è diverso: posso vedere le marmotte a pochi passi da me ed è un vero piacere. Sono animali piuttosto curiosi e simpatici: dritti sulle loro zampine posteriori a guardia delle loro tane, osservano tutto intorno per avvistare eventuali pericoli e, all’occorrenza, in un baleno si infilano al riparo. Sarebbe bello avvicinarsi al punto da toccarle e accarezzarle. L’impresa è, purtroppo, impossibile, per cui mi devo accontentarmi di osservarle graziosamente e di fotografarle. Poiché il prato è pieno, come tante sono le buche delle loro tane, Cosimo ribattezza la valle come “la Valle delle Marmotte”.
Questi inaspettati e improvvisi incontri, mi hanno veramente rinfrancato, ripagandomi con interesse degli inconvenienti delle ore precedenti: ho letteralmente messo alle spalle e dimenticato il brutto tempo mattutino e mi sento più leggera e più fresca, come se la giornata e l’escursione comincino proprio adesso. Scendo giù molto agilmente e ad un tratto il prato delle marmotte lascia spazio al bosco, costeggiando un ruscello, il”Ruf de Udai”, che arriva fino a Mazzin. Camminare lungo un torrente è fantastico: se potessi passeggerei al suo fianco ad occhi chiusi. Non potendolo fare, proseguo sospinta dal fragore dell’acqua che scende a saltelli in piccole cascate e tale suono mi accompagna come un sottofondo musicale, allieta la mia discesa che nel frattempo si è fatta più ripida e scivolosa. Mi sento sollevata e spinta giù da questo soave suono che mi avvolge, coprendo tutti gli altri.
Tra una cascatella e l’altra, un ponte di legno e l’altro, da una sponda all’altra, ad un certo punto mi ritrovo davanti ad una grotta. Nell’avvicinarmi mi accorgo che piove, però l’acqua non proviene dal cielo ma dalla roccia sovrastante: ci si può tranquillamente fare una fresca doccia naturale.
Una volta entrata al suo interno, della vernice rossa e celeste attira la mia attenzione, ma con un senso di ribrezzo perché anche in uno sperduto angolo di paradiso non è tollerabile che qualcuno imbratti le pareti. Questa prima sensazione di disgusto dovuta ad un’affrettata occhiata, va pian piano scemando perché lo sguardo entra più in profondità per decifrare l’imbrattatura ed il suo contenuto. E qui la mia mente si apre a 360 gradi e si illumina d’immenso. Quella “pittura”non è informe o insignificante: è una formula matematica, anzi la formula matematica per eccellenza, elaborata dal matematico svizzero Leonhard Euler: eip+1=0.
Molti non la conoscono perché nel corso degli studi scolastici la si incontra a livelli superiori (generalmente universitari) e quindi difficilmente possono apprezzarne il valore. Da alcuni studiosi è stata definita “la più bella formula matematica” che sia stata mai concepita. È l’estrema sintesi dell’algebra perché contiene: a) i cinque più importanti numeri o costanti, vale a dire lo 0 e l’1 (i primi due numeri naturali dai quali si generano tutti gli altri), l’unità immaginaria i (introdotta per la creazione dei numeri complessi), il p (che indica il rapporto costante tra una circonferenza ed il suo diametro) e la costante di Euler utilizzata per la definizione dei logaritmi naturali; b) le tre operazioni algebriche fondamentali, ovvero l’addizione (+), la moltiplicazione () e l’elevamento a potenza; c) infine la principale relazione stabilita tra i numeri, ossia l’uguaglianza (=). Dunque in soli 7 simboli è racchiusa tutta l’algebra elementare. Può sembrare strano parlare di bellezza in Matematica, ma non è così. Abbiamo di fronte un raro esempio di sintesi più estrema, spinta al massimo, difficilmente riscontrabile. Ed è in questo che consiste la sua bellezza, pensando oltretutto agli sforzi necessari per ottenerla, alle capacità d’astrazione e di sintesi richieste, ma anche alle doti di creatività ed immaginazione che sono alle loro spalle.
A primo acchito la sorpresa e lo stupore di questa presenza particolarissima sono tali da bloccare ogni mia altra forma di pensiero e dunque rimango immobile. Passato lo shock iniziale, riprendo il cammino e immediatamente si insinuano nella mia mente dubbi e domande: perché qualcuno ha scritto quella formula sulla parete della grotta? Perché proprio in quella grotta? Perché proprio in quella vallata poco frequentata? Perché proprio quella formula? Cosa ha spinto qualcuno (e chi?) ad esporre quella formula in quel contesto ambientale? Quale legame c’è o ci può essere tra la formula e le grotta? E tra la Matematica e la Natura?
Mentre continuo a scendere, la mia mente è occupata a cercare risposte a tali interrogativi. L’autore ignoto non ha lasciato tracce né indizi per capire, per cui questi quesiti rimarranno insoluti, anche se è possibile azzardare delle ipotesi.
Ciò che mi viene immediatamente in mente è provare ad individuare analogie tra i due elementi, mettendoli confronto. Ma non è facile ed immediato.
Immersa in questi pensieri ed operazioni, la natura mi richiama e mi scuote, proponendomi un’altra delle sue meraviglie: una cascata alta circa 100 m. Non è grande e non ha un’elevata portata, ma è alta, altissima. È stupenda! Mi viene d’istinto la tentazione di mettermi sotto e lasciarmi bagnare dalla nuvoletta d’acqua nebulizzata che la cascata offre al termine della sua discesa. È troppo bella per non rimanere estasiati e incantati, motivo per cui io e gli altri indugiano ai suoi piedi, anche per scattare delle foto. Si riprende il percorso e con esso mi tornano in mente i perché, ma con intensità inferiore: lo spettacolo della natura mi tiene occupata con sensazioni e percezioni particolari. I miei quesiti si assopiscono mentre continuo a scendere guidata dalla dolce melodia del ruscello e non mi accorgo che ormai sono giunta in fondo alla discesa, nel paese di Mazzin dove, presso la fermata dell’autobus, ritrovo tutti i compagni di viaggio, un po’ stanchi come me ma soddisfatti. Dopo circa mezz’ora di attesa, finalmente arriva la corriera che ci riporterà in albergo. L’escursione è ormai terminata, ma dentro di me è rimasto il tarlo del dubbio, il rebus da sciogliere. Nelle ore successive, durante le notti e i giorni a venire sicuramente continuerò a pensarci fino ad arrivare ad una personalissima opinione. Non ho la pretesa di avere la soluzione né la risposta: nessuno me la potrà fornire se non l’autore stesso, ma ritengo estremamente improbabile che ciò possa accadere. In ogni caso quella scritta ha lasciato il segno, lo stupore e la curiosità.
 
P.S. Anche a distanza di giorni, continuo a rifletterci, a cercare una spiegazione.
Per il momento, l’unica caratteristica che, personalmente ritengo, accomuna la vallata e la formula, oltre alla loro limitata notorietà, è l’elevato fascino che destano: da un lato un’incantevole e sorprendente vallata e dall’altro una straordinaria e stupefacente formula matematica. E scusate se è poco.
 
Angela Paolicelli