Sei giorni in Val di Fassa

Strati di storia antichissima sedimentati in fondo al mare e diventati nel frattempo roccia. Sollevata da forze immense, lasciata a riposare a lungo sotto il ghiaccio e poi scavata dalla furia degli elementi. I monti pallidi si elevano dalle verdi valli, nudi e possenti nella loro fiera bellezza di giganti. Si sono accampati su una vasta regione sotto l’arco alpino centro-orientale, il loro campo tinto di rosa quasi sembra non finire mai per quante vette e guglie, ghiacci e ghiaioni, altopiani e valli nasconde e mai di stupire per la bellezza che rivela al visitatore curioso.
Sei giorni per incontrarci e restare un po’ insieme.

Lunedì. L’acqua la si incontra per prima. Perché scende senza posa, incontro a chi risale la Val di Fassa, fresca ed invitante per la pelle e per le viscere. Basta seguirla e lei ti porta tra le montagne che graffiano il cielo, tra nubi languide e permalose. Oggi è un giorno speciale senza nuvole e il caldo è salito anch’esso fino a queste altezze inconsuete, fiacca le gambe e ci spinge a cercare l’ombra di un rifugio. Là dove gli ultimi larici si arrestano, proliferano campanule e stelle alpine mentre uno sparuto stormo di gracchi dal becco giallo si avvicinano curiosi. Noi falchetti restiamo però attratti dalla grande aquila, fiera e scura, che scruta l’orizzonte lontano. Il gruppo è potente ed insieme superiamo il passo delle Coronelle a 2635 metri di quota e sopportiamo la fatica della discesa imprevista dopo la chiusura dell’impianto della funivia.
Martedì. Un giorno per riposarci, tra il Corno Nero e il Corno Bianco oltre il passo di Lavazé. Tra martagoni e fiordalisi, siamo andati a sdraiarci insieme alle vacche e alle caprette della Malga Gurndin, dove al tavolo abbiamo gustato speck e formaggi, strudel e frittelle serviti dai ragazzi della numerosa famiglia Dipauli. E dove un’incauta signora è entrata nel recinto degli asini per accarezzarne uno e se li è ritrovati tutti addosso che reclamavano con irruenza un altro zuccherino.
Mercoledì. Insieme a Renato abbiamo conosciuto la pecceta di Paneveggio, dove Stradivari cercava tra gli abeti rossi la risonanza per i suoi violini. La foresta è disseminata di impronte, ma noi sappiamo riconoscere solo quelle disegnate sulle tabelle didattiche. Poi attraversiamo il ponte tibetano e lo sguardo segue le acque della cascata del Travignolo, ci chiediamo quanti anni avrà quel giovane abete salito sopra una ceppaia per arrivare prima alla luce, scopriamo che le barbe del bosco sono licheni che pendono dagli alberi più vecchi e non recano alcun danno all’albero, vengono da un tempo molto lontano. Il muschio serve a trattenere l’acqua che disseta la foresta. Insieme all’abete rosso vivono i larici, il pino cembro e l’ontano bianco e il salice vicino all’acqua. Accanto alla baita Segantini a 2200 metri c’è un laghetto e sopra le sue increspature si eleva il Cimon della Pala. Andiamo a toccargli i piedi e sul cammino incontriamo il rododendro, la genziana, il doronico e resto incantato ad ammirare il giallo papavero alpino che popola il ghiaione, a due passi da una lingua di ghiaccio.
Lo yogurt con i frutti di bosco ha il sapore di una discesa sotto la pioggia. Quanto mi piace camminare sotto la pioggia, tra l’erba che si bagna e la natura delle cose che cambiano luce e odore.
Giovedì. E’ il giorno dell’escursione più importante programmata da Donato, è il giorno dell’Antermoa. La prima corsa delle 8:30 della funivia per Ciampedie è nostra. Il cielo ci incoraggia a intraprendere uno dei sentieri più impervi e meno frequentati del gruppo del Catinaccio nonostante le previsioni non siano proprio delle migliori. Vorrei fermarmi a leggere le tante belle storie e segreti del bosco e degli animali sui cartelloni prima di giungere al Rifugio Gardeccia, ma non c’è il tempo e la vegetazione è un incanto.
Il malgaro non ha il gatorade e al suo posto vorrebbe farmi bere la grappa. Giriamo intorno al Gran Cront e viene giù qualche goccia, a intermittenza. Affrontiamo le Scalette, la salita più impegnativa della settimana. C’è da divertirsi, senza mai abbandonare l’attenzione. Ci portano sui piani di Larséch, tra laghetti d’acqua e di erba. Circondati dalla cime vicine, sembra di stare dentro una grande mola cariata. Ancora si sale ed Eustachio apre l’ombrello. Ormai piove quando Gregorio, che è partito a piedi dai 1400 metri di Vigo, ci raggiunge. La pioggia non è forte e la mia giacca a vento impermeabile tiene bene l’acqua e il freddo che ci arrivano dalle spalle. Acceleriamo sulle rocce segnate dalle bandierine verniciate di bianco e di rosso del CAI e al passo de Laussa a 2711 metri decidiamo di cambiare itinerario, di lasciar perdere l’impegnativo passo di Antermoa e guadagnare il vicino Rifugio Antermoia. Il lago di Antermoa mi appare all’improvviso come un gioiello sotto le cime e i ghiaioni, regalandomi un blu turchese nonostante il cielo grigio. Stanchi, infreddoliti e bagnati, non c’è niente di meglio che ripararsi dentro un un rifugio accogliente, cambiarsi la maglietta sudata e riscaldarsi davanti a un tè bollente, un panino e uno strudel per lo stomaco e il palato.
Nel frattempo i pantaloni si sono asciugati addosso. Ripartiamo rinfrancati in fila indiana attraverso il ghiaione che scende al pas de Dona, verso la Val de Udai. Il mondo cambia: smette definitivamente di piovere mentre vallette e colline di praterie si aprono davanti a noi, che quasi mi sembra di essere tornato tra i paesaggi surreali dell’Islanda.
Un fischio inconfondibile, è l’allarme lanciato dalla marmotta. Mi fermo e mi metto a guardare lontana per scorgerla. A sorpresa mi appare davanti, a meno di una decina di metri. Ritta in piedi, si lascia ammirare e fotografare. Non immaginavo di attraversare una valle popolata da decine e decine di marmotte. Donato si ferma forse mezz’ora incantato ad osservare una famigliola con i piccoli, che vive il proprio menage quotidiano indifferente alla nostra presenza.
Il mondo cambia ancora e un nuovo paesaggio si schiude: sopra un terreno scuro di rocce vulcaniche, la Valle de Udai si stringe intorno al suo torrente e ci offre luparie, arbusti, larici e pareti a strapiombo, interrotte da anfratti e da cui piove il Pis. Altissima, cade la cascatella, direttamente dal cielo.
Sono l’ultimo del gruppo perché rallento, irrimediabilmente assorbito da tanta bellezza. Mentre scendo il ripido sentiero che porta giù a Mazzin, mi dico che questa è stata una delle più belle escursioni che abbia mai fatto.
Venerdì. In attesa di salire nella sala naturale del concerto, con zio Giovanni ho fatto una passeggiata per raggiungere la chiesa di Sent’Uliana. Perché l’hanno chiamato sentiero delle meraviglie? Ci sono larici che regalano la loro ombra, una coppia non più giovane che si diverte a giocare a carte e farfalle che svolazzano. Alcune tabelle didattiche invitano ad ascoltare il proprio intuito profondo, raccontando di animali, della luna e dell’acqua.
A proposito dell’acqua: “L’acqua è molto sensibile, è come una spugna che assorbe ciò che le viene dato, ciò che essa tocca, ciò che contiene e ha contenuto. L’acqua tiene il collegamento tra terra e cielo, passando continuamente informazione; quindi acqua pulita passa informazione positiva, acqua inquinata passa informazione distorta.”
Sorprendente è la gotica chiesa di Santa Giuliana, costruita secondo criteri astronomici, con il suo bellissimo campanile a punta. Un foro nella grata della finestra mi permette di coglierne i tesori di dentro.
Ripido più del previsto è il sentiero che dalla valle di San Nicolò porta su a Lagusel a 2184 metri. L’acqua bagna la camicetta bianca della giovane musicista londinese, senza riuscire a fermare il suono dei corni, antichi e moderni, che si espande sulla piana. Mr. Martin Mayes corre al lago con l’entusiasmo di un giovinetto per soffiare e ascoltare il suono del corno alpino sull’acqua. La guida non ci accetta ma noi la seguiamo lo stesso fino al passo della Palacia. Poi scendiamo per conto nostro lungo il sentiero, molto ben indicato come tutti gli altri. Ogni tanto viene giù un po’ di pioggia ma l’acqua non ci spaventa e noi siamo felici.
Protetti nell’hotel Belvedere possiamo goderci un temporale che imbianca la strada di grandine.
Sabato. Siamo saliti in alto, sulla vetta di questa vacanza, sul Piz Boè, a 3152 metri. La cima di questa settimana è in Veneto, tra le dolomiti di Belluno. Su, a Capanna Fassa, si possono mangiare gli spaghetti. Mi sono limitato a un pasto frugale e a raccogliere la mia ennesima cartolina per apporvi il timbro del nostro passaggio. Dal Sass Pordoi lo spettacolo delle dolomiti tutt’intorno è di grande suggestione. Lasciamo il passo che fu di Coppi insieme ad un manipoli di ciclisti che scendono come schegge tra i tornanti e svoltiamo ancora una volta nella valle di San Nicolò. Il cielo è grigio e quasi minaccioso, ma saliamo ugualmente sulla seggiovia che porta al Buffaure. Meno male che avevo con me un ombrello con cui ho potuto ripararmi quando al ritorno è venuto a piovere e non potevo sottrarmi al cielo.
E’ arrivato il momento di accantonare gli scarponi e di scendere nella sala per brindare con amici e compagni ai sei giorni felicemente percorsi insieme.
 
Cosimo