Fruttuosa come l’uva regina, come un melone giallo. Fruttuosa come una passeggiata che diventa fatica e sudore e salita, a mano a mano che il cammino avanza.
Non te l’aspetti di passare nei vicoli fiancheggiati da case brulicanti di anziani, affacciate sul limitare del mondo, né di finire catapultati in Grecia dalle bianche architetture di una piccola chiesa. Per affacciarti a mare. Su un mare dorato che si estende ai tuoi piedi e l’orizzonte si perde nella foschia di un’estate senza misura.
Ma la mattina è ancora dolce e sinuosa tra le pieghe d’argilla, pelle arrappata dall’acqua e dal vento, e dall’acqua che manca. Pelle spellata di continuo, che lascia affiorare i ricordi di un mare lontano nel tempo. Bianchi gusci di un passato remoto accostati ai vuoti gusci di chiocciole passate quest’anno. Deserto. E’ come attraversare un deserto, di calanchi, di steppa, di terre abbandonate. Della vita restano in superficie le tracce e colonie infinite di inarrestabili formiche (anche loro in escursione sul monte calvo). Qui la vita si nasconde. Come le rane nel loro mondo chiuso in un pozzo, come i porcospini rintanati in attesa della luna. Lo sa bene il nibbio che scruta ogni anfratto dalle colline del cielo, in cerca di un sentiero ripido che lo conduca dritto alla preda.
Anche l’acqua si nasconde: attraversiamo un fiume e quasi non ce ne accorgiamo. Qualcuno dice che il Cavone è solo un torrente ma quando è in piena fa paura. Ora dorme, nascosto in un tubo nella terra o al riparo di una vegetazione di olmi, di pioppi e di canne, che popola il solco profondo e tortuoso, mollemente proteso al mare.
L’acqua che regge il cielo nelle pozzanghere, intorbidita dal polverone di fango sollevato dalle rane che pattinano sul fondo a scavezzacollo. L’acqua sotterranea che fa crescere pugni, braccia, teloni di olive tra le fronde verdi e giovani di rami contorti di tronchi nodosi. Non te l’aspetti così distante quel poggio misterioso, che s’inarca come dorso di balena emergendo dalle viscere della terra. Quelle storie così feroci dell’assassino Grop, quel nome venuto da chissà dove.
Dopo dieci chilometri a piedi, la Petrolla sconosciuta diventa un mito agognato da chissà quanto. Appare come un miraggio all’orizzonte, basta seguire lo sguardo per trovare il sentiero. L’importante è che non piova sennò la terra non lascia andare l’acqua e diventa fango in cui perdersi.
Miraggi sono le immagini che scorrono lente nell’aria umida che diventa arsura. Eppure le terre hanno ancora frutti da offrire, dove sono finiti i contadini? Restiamo soltanto noi a camminare sotto il sole cocente.
Il lentisco e i cardi trasformati in fragili ed acuminate stelle restano l’ultimo baluardo a difesa del castello, arroccato lassù, sulla cima. La parete verticale, fessurata da tante storie e tanti anni trascorsi a guardare il sole, appare invincibile e inavvicinabile. Invece poi la roccia ci prende in braccio, sopra gradini intagliati dagli antichi padroni di questo faro, luogo di avvistamento di navi in arrivo.
La lammia aveva due piani e una volta per tetto . Le restano due pareti e una finestra per continuare a spiare lontano senza essere visti.
Il vero padrone resta il cielo, con il sole che brilla implacabile, ci imperla la fronte e secca la gola.
Torniamo sui nostri passi passando da un’oasi all’altra, contando su una mano gli alberi e le salite che ci separano dal paese.
In questa assenza di voci tace anche la piccola campana della Madonna delle Grazie. Con i suoi muri bianchi, immacolati, anch’essa mostra il suo guscio. Svuotato della vita e riempito di terra. Appare come un’isola deserta, destinazione surreale di una striscia d’asfalto perfetta, intatta. Senz’anima viva. Fino a Pisticci.