“Stanco di aspettare che il fotografo trovasse la luce giusta, mi allontanai per dare un’occhiata a ridosso della gravina. Vidi un alto comignolo che si affacciava sul torrente e avvicinandomi notai allora una fessura poco più avanti, un’entrata sul ciglio della gravina. Ma la vegetazione era intricata e non era facile capire come fosse possibile arrivarci”.
E’ la voce di Rocco che ci racconta la storia di una scoperta avvenuta venticinque anni fa.
Rocco ci ha raggiunti con Renato e Domenico al parcheggio vicino Masseria Passarelli, arrivando a piedi direttamente dalla città. Lo seguiamo, prima sul sedime della vecchia tratta ferroviaria a scartamento ridotto, dismessa nel 1972, che collegava Matera alla costa Jonica, poi attraverso gli ulivi che circondano Parco dei Monaci.
Rocco e Domenico tendono una corda lungo un passaggio pericoloso del percorso, tra la roccia e gli arbusti di ginepro e lentisco. Oltre c’è un salto di una ventina di metri, di sotto scorrono le acque torbide del torrente. Siamo sul fianco destro della gravina, osservo la liscia parete che cade a strapiombo sull’altro lato. All’apice, un antico muro in conci di tufo prosegue la parete naturale. E’ realizzato con perizia, per sostenere una terrazza dove una volta qualcuno coltivava un orto; ora è invasa dall’erba alta, tra la macchia e i fichi d’india.
Siamo in venticinque, tra cui diversi volti nuovi che dall’inizio dell’anno si sono aggiunti alla schiera dei camminatori della Falco Naumanni. Neofiti, ma molto determinati: non si sono scoraggiati alle parole di Donato durante la riunione di pre-escursione, venerdì scorso, che spiegavano le difficoltà tecniche del percorso e soprattutto annunciavano le non buone previsioni meteo, con temperature intorno allo zero, vento e una copertura nuvolosa che non escludeva la possibilità di pioggia. Ma il cielo si tiene un margine di imprevedibilità e questa volta ci ha sorpreso positivamente, regalandoci una bellissima giornata, un po’ fredda, ma soleggiata e senza vento. La luce del sole filtra allegramente tra i tronchi nodosi e le fronde degli ulivi, riflettendosi nel buonumore e sui sorrisi dei miei compagni.
Imma e Michele non se la sentono di proseguire perché il fondo è scivoloso e bisogna affrontare il tratto esposto: aspetteranno pazientemente il nostro ritorno. Con un po’ di attenzione, scavalcando radici insidiose e con le mani che sfiorano i cespugli di rosmarino e di cisto, raggiungiamo un anfratto nella roccia. E’ come se un gigantesco cucchiaio fosse affondato nella roccia tirandone via una parte e lasciando abbastanza spazio per consentire a tutti noi di starci comodamente. Un incavo naturale, anche questo protetto dal lato del burrone dalla vegetazione, fatta di lunghi ed esili lecci e contorti terebinti. In fondo, una scalinata intagliata nella roccia sale su un ingresso squadrato, senza porta come tutte le chiese rupestri disseminate nei recessi della Murgia. Oltre, nella penombra, si intravedono disegni di raffinati archi.
I pochi metri quadrati del tempio ci costringono ad alternarci all’entrata. Rocco dà le spalle alla scalinata e rivolgendo a noi la sua lunga barba bianca spiega che dopo quel primo avvistamento, proprio qui tornò il giorno dopo in compagnia di Franco Moliterni, detto “Gorilla”. Insieme riuscirono a trovare un varco nella macchia e raggiunsero la chiesetta rupestre dimenticata. L’ingresso originario, che dava sulla gravina, era già scomparso a causa di un crollo naturale della roccia.
“Il sito sacro è stato pochissimo rimaneggiato”, racconta Franco Moliterni nel volume “Civiltà Rupestre a Matera”, pubblicato da Editer nel 1996, pochi mesi dopo la sua prematura dipartita. “E’ chiaro il suo impianto, con la presenza di due presbiteri. Si notano, inoltre la panchina per far sedere i fedeli e gli inginocchiatoi davanti agli altari. Ci sono pure frammenti di affreschi, purtroppo illeggibili, nel vano di sinistra e sulla testata della parete che divide le due campate.”
La presenza di numerosi occhielli ricavati nella roccia – boccole li chiama Moliterni – indica probabilmente una frequentazione successiva per così dire laica, da parte dei pastori. Uno di questi è davvero singolare perché ricavato su quella che doveva essere una mensola, sulla parete che separa le due absidi. Qualcuno azzarda l’ipotesi che la mensola non fosse altro che un’acquasantiera.
Santa Maria degli Almari – il cui nome, secondo Moliterni, proviene dal latino “almus”: che protegge – era posta vicino all’antica strada che portava a Ginosa mentre oggi non esiste più nemmeno un sentiero per raggiungere la chiesetta.
Mi attardo per ultimo a contemplare il torrente dalla grande finestra triangolare che si affaccia sulla gravina. Le voci dei miei compagni sono lontane, è tornata la calma. Tra queste pareti sembra aleggiare ancora la preghiera, voci silenziose che vengono dal passato e che resistono al tempo, un invito al raccoglimento e alla pace.
Torno sui miei passi e raggiungo i miei compagni. Facendoci largo tra rami e cespugli, che ci servono da appiglio, proseguiamo verso un sito rupestre pastorale, anche questo abbandonato. Ci guida la vista di un comignolo che svetta sopra un piccolo manufatto di tufo. Giungiamo a un ingresso, nascosto dai rovi e dall’edera, che immette in un vasto ambiente ipogeo, una stalla rupestre lunga almeno una ventina di metri, con mangiatoie intagliate nella roccia e una finestra che guarda direttamente sulla gravina. Nell’angolo immediatamente a destra, c’è un ampio camino, un caciolaro per la lavorazione dei prodotti del latte. In fondo, è invece la parete grezza, con i segni evidenti dello scavo del piccone, come se il progettista fosse indeciso se ampliare l’ambiente o lasciarlo com’era. Due profonde incisioni verticali ed una orizzontale più ampia in altro, indicano che era stata iniziata l’estrazione dei conci di tufo: due pietre a cuneo sono ancora infisse nella fessura, strumenti usati per spaccare e staccare la roccia calcarenitica.
Lasciamo la stalla rupestre e proseguiamo infilandoci nella vegetazione di olivastri, lecci e terebinti, mantenendoci sul bordo della gravina. Dalle fitte fronde degli alberi e dei cespugli, emergono lembi di pareti lavorate, piccole cave di tufo abbandonate al tempo.
Domenico misura per gioco un’antica tomba, anche questa scavata nella roccia. Attraversiamo un canale naturale che versa il suo rivolo d’acqua alla gravina. Poi la sponda scende, man mano che ci avviciniamo alla Masseria Passatelli e troviamo un paio di copertoni, rotolati da chissà dove. Troppo pesanti da caricarli a braccia e portarli via. Donato, però, non ha rinunciato a ripulire il percorso almeno dalle bottiglie di plastica e da altri piccoli rifiuti abbandonati.
E’ inequivocabile il segno delle piene passate: cartacce, stracci e pezzi di plastica sono saldamente impigliati nei cespugli, come una strana fioritura invernale. Un ampio pianoro di roccia si solleva di poco dal greto del torrente; levigato dall’acqua, è solcato da morbide incisioni, tutte nello stesso senso. Enzo si dice sempre più convinto che si tratta di incisioni praticate dall’uomo che provano che qui una volta c’era una necropoli. Quando il torrente portava meno acqua, questo lembo di roccia era all’asciutto. Ora nella roccia crescono piante acquatiche.
L’escursione prosegue verso il Villaggio Saraceno, dove è sempre bello ritornare. Nel racconto però mi fermo qui, dove finisce la scoperta di una parte della Murgia che non conoscevo. Queste righe serviranno anche a me, per non dimenticare e ritrovare il sentiero che porta a Santa Maria degli Almari.
Cosimo Buono