La partenza dell’escursione “Garaguso e la valle della Salandrella”, prevista per questa mattina alle 9,00, è accolta con aria festosa ed emozione; trovo gli escursionisti di Falco naumanni, appena arrivati da Matera, allegri ed entusiasti, come del resto avviene sempre ad ogni uscita della nota associazione materana di trekking.
Nella piazzetta del paese, intorno alla fontana con la dea Cerere (“Maria Gaetana”), c’è esuberanza e gioia nell’accingersi ad intraprendere il percorso programmato nella vicina gola della Salandrella, nel bosco a ridosso del torrente e infine nel centro storico. Anch’io, che sono originario del posto e conosco da sempre quei luoghi, sono piacevolmente contagiato da tale euforia e mi sento pervaso dalla curiosità di riscoprire le suggestioni della zona a me tanto familiare, notarne magari nuove bellezze e spunti di riflessione aiutato dai commenti e dalle osservazioni dei compagni.
L’entusiasmo è accresciuto dalla prevista recitazione, durante l’escursione, da parte dei coordinatori (il sottoscritto e Cosimo), dei versi dei poeti lucani Leonardo Sinisgalli e Rocco Scotellaro, mentre la visita della parte più antica del piccolo centro, al termine della giornata, sarà resa più intensa e interessante dalla presenza del poeta locale Gaudenzio Calciano, che declamerà alcune sue poesie ispirate alla vita quotidiana di Garaguso di qualche decennio addietro.
La poesia nata in Lucania, a contatto con gli stessi luoghi attraversati a piedi, stimola il nostro spirito di osservazione, ci permette di dare voce e parola a sentimenti, impressioni, osservazioni che altrimenti rimarrebbero fugaci, inconsci e inespressi.
Spiego subito, nel punto in cui gli ospiti materani hanno parcheggiato le auto, il motivo della strana presenza di “Maria Gaetana”, la statua in bronzo collocata sopra la fontana pubblica, agli inizi del Novecento, nella piazzetta al limite del paese. All’epoca, non esistevano ancora l’attuale edificio scolastico né i pini della villa comunale e il singolare monumento appariva circondato dalle immense distese di messi, accarezzate dal vento, imbiondite dal sole progressivamente più caldo, turgide di grano grosso e dorato in attesa dei mietitori, sulle alture ondulate delle Serre a nord di Garaguso.
Cerere, “Maria Gaetana”, dea dei cereali, donatrice perenne di acqua in piazza, simulacro di antica Romana alta e robusta, eretta come una spiga, bruna come il grano di giugno, scura come una zolla, il lieve sorriso enigmatico, il capo inclinato verso il suolo fecondo e appena voltato verso gli orizzonti seminati, un passo avanzato, vigoroso e indomito, di divinità pagana e démone della terra e dei campi sfuggente ed elusivo, misterioso e imprevedibile; il fascio di grano abbondante e ricurvo per il peso delle spighe traboccanti di chicchi maturi, la falce impugnata dalla lama affilata.
Cerere, chiamata, confidenzialmente dalla gente del posto, “Maria Gaetana” compaesana ed amica, pubblica e popolare, donna e padrona del grano e della terra, distante e, nello stesso tempo, familiare; è immobile e costante, fredda e metallica, bronzea e impassibile, impenetrabile e inappellabile, ma generosa apportatrice e garante del ritorno annuale, sulle Serre, delle messi piegate dal vento, del mare di spighe dorato e brillante nel solstizio d’estate: promessa di nuova meritata abbondanza, di cibo e benessere per la povera gente di Garaguso che si ammazzava di fatica in campagna, per guadagnarsi il frumento prezioso, l’oro commestibile, vitale, essenziale che luccica al sole, il frutto della terra, dell’acqua, del sudore.
Ci muoviamo rapidamente, dalla piazzetta del paese, verso la valle della Salandrella. L’aria è frizzante e la camminata è divertente e piacevole, facilitata dalla discesa, allietata dal verde delle querce, dei carpini e dei lecci, che si scorgono sempre più ravvicinati nel bosco di fronte, sull’altro versante della stretta gola del torrente, meta successiva del nostro itinerario, mentre la luce è radiosa e l’aria tersa grazie al secco e fresco vento da nord che soffia intenso da alcune ore.
Ci troviamo rapidamente sul greto cosparso di pietre e adagiato tra i primi affioramenti del giallastro “Sabbione di Garaguso”, sedimento marino compattato del pliopleistocene, che assume la forma di piccole “tempe” scoscese e basse falesie.
In un piccolo pianoro, delimitato da esigui baluardi, friabili e teneri, del “Sabbione”, nascosto da siepi e cosparso di grossi ulivi, osserviamo la ormai in gran parte diroccata “masseria del carcerato”, costruita in grossi sassi tondi e levigati e perfettamente mimetizzata nell’ambiente pietroso del greto distante pochi metri. I crolli, che interessano la costruzione, sembrano ricondurre i ciottoli alla loro condizione originaria mobile e instabile, come se la natura si volesse riappropriare del pietrame, sottraendolo all’effimera e artificiale collocazione nel fabbricato, per riassorbirlo nel movimento perenne delle piene del torrente.
Camminando sul letto disseccato della Salandrella, le nostre scarpe da trekking affondano nella sabbia mescolata a ghiaia e sassi. Dopo aver superato, saltando da una pietra all’altra, un rigagnolo d’acqua, imbocchiamo, attraverso un fitto bosco, un ripido sentiero in salita, i cui tornanti dribblano tra i tronchi delle grandi querce, poderosi e contorti come sculture, materializzazione e monumenti del tempo trascorso, corrispondente ad almeno due generazioni della vita umana. Il sottobosco comprende aceri, frassini, carpini, lentischi, lecci mentre singolare e frequente è la presenza di arbusti di alaterni dalle foglie dure, coriacee e sempreverdi, all’origine del nome Aliternosa di quest’area del bosco.
Ci fermiamo in un’ampia radura completamente ombreggiata da grandi querce dalle folti chiome che impediscono ai raggi del sole di penetrare. Osserviamo tra i grossi tronchi contorti la raffinata e sobria manifattura in pietra dei muri di contenimento e canalizzazione della vecchia sorgente dell’Aliternosa non più pulita e pertanto intasata e disseccata e le grandi vasche (“pilacci” in dialetto) colme di residui stagnanti di acqua piovana verdastra e sporca, in cui nuotano zanzare e tritoni. La sorgente alimentava, mediante una conduttura che giungeva in paese, la fontana di “Maria Gaetana”, prima dell’allacciamento di Garaguso alla rete idrica statale.
Percorriamo successivamente il valico e i pianori del Boscone, guardinghi e curiosi, attenti e sorpresi, con passo costante e tenace, tranquillo e sicuro, temprato e disciplinato da parecchi anni di escursionismo anche a quote elevate. Dinanzi ai nostri occhi, si dispiega progressivamente a perdita d’occhio un orizzonte immenso e solitario, sempre più grande col crescere dell’altitudine, fatto di distese ondulate di colline, calanchi, catene montuose, boschi folti, grandi querce, versanti e falesie calcaree, greti “polverosi”, mentre Garaguso e gli altri paesi diventano quasi invisibili, assorbiti e confusi nella vastità crescente del paesaggio.
Recito, a sorpresa, mentre i compagni osservano lo straordinario panorama dell’intero territorio della provincia materana che si spalanca alla vista, i seguenti brevi e celebri versi di Scotellaro: Lucania. M’accompagna lo zirlìo dei grilli / e il suono del campano al collo / d’un’inquieta capretta. / Il vento mi fascia / di sottilissimi nastri d’argento / e là, nell’ombra delle nubi sperduto, / giace in frantumi un paesetto lucano. (R. Scotellaro, da E’ fatto giorno)
Sullo stesso cielo di Garaguso, oltre che durante l’intera escursione, diversi esemplari di nibbio reale si levano improvvisi sulle nostre teste nell’aria tersa e luminosa, con energiche impennate, planate e picchiate, intervallate dal lungo e ampio roteare ad altezze imprevedibilmente più alte o più basse.
Scorgiamo infine, sulla Serra Boscone, la lamina sottile e lontana del mare Jonio, striscia di mare assurda e incongruente, un tempo sconosciuta o ignorata da noi lucani, considerata insignificante rispetto al più importante e vasto mare di terra che ci circonda.
Colmi di meraviglia ed ebbrezza, i versi di Lucania di Sinisgalli traducono nelle parole più adatte le emozioni e le suggestioni suscitate dal nostro cammino; ci sembra di ritornare indietro nel tempo e di vedere o di essere noi stessi, il pellegrino che s’affaccia ai suoi valichi, il nibbio che rompe il filo dell’orizzonte con un rettile negli artigli l’esule, il pastore, l’emigrante, il soldato, il mezzadro, il mercante, dinanzi al cui avanzare avventuroso, solitario e audace, “la Lucania apre le sue lande, le sue valli dove i fiumi scorrono lenti come fiumi di polvere”.
I versi citati rappresentano la nostra guida, ci abituano a cercare significati profondi, ad arricchire di parole ed emozioni le suggestioni dei luoghi; li ho scelti perché mi sembrano adatti a esprimere lo spirito della nostra escursione in un angolo poco noto della Basilicata.
La poesia Lucania di Leonardo Sinisgalli, scritta dal colto e famoso ingegnere-poeta di Montemurro, che aveva vissuto nelle grandi città e provava nostalgia e amore indomito per la sua terra, possiede una malìa straordinaria: sono le parole che rappresentano più profondamente l’essenza geografica e umana, unica e irripetibile, della nostra regione. Quei versi hanno il potere di risvegliare, soprattutto nelle vecchie generazioni, emozioni sopite, ricordi, immagini lontane: la memoria remota del carattere più autentico della Lucania. Si dice che l’occasionale recitazione della poesia ha avuto talvolta l’effetto inaspettato di commuovere fino alle lacrime alcuni anziani nostri conterranei, spesso analfabeti e senza nessuna dimestichezza con i testi poetici e letterari.
Le parole dei poeti sembrano esprimere nel modo più profondo e adeguato le emozioni suscitate da quella bellezza selvaggia e solitaria. La poesia lucana, che nasce in un mondo arcano e misterioso, dotato di un fascino severo e originale, mi sembra particolarmente adatta ad introdurre e accompagnare la nostra escursione, a rappresentarne lo spirito: una vera e propria avventura nel cuore profondo e sconosciuto della regione, in una zona trascurata dal turismo e spesso ignota agli stessi lucani. Spero che l’incanto funzioni e che la poesia sostituisca, per quanto possibile, le nostre parole, insufficienti ad esprimere le sensazioni ispirate da luoghi così singolari: un mondo straordinario, abitato da presenze discrete e schive, dominato dal silenzio, da una solitudine profonda e ancestrale, che proviene intatta dalla notte dei tempi.
La poesia appartiene ad ognuno di noi, all’esperienza universale dell’ambiente naturale e del mondo che ci circonda, anche se solo i poeti riescono a individuare ed esprimere i sentimenti e le impressioni più originali. Impariamo ad amare i versi recitati durante l’escursione, ne comprendiamo la pregnanza e verità, educhiamo la nostra sensibilità, siamo meno distratti, più concentrati sul nostro percorso, ci abituiamo all’ascolto, all’attenzione, ad apprezzare il fascino profondo della natura, collegando il piacere del cammino al contenuto dei testi poetici in modo che entrambi acquistino maggiore valore.
Un compagno pugliese, gradito ospite del nostro gruppo, ci dice che un paesaggio simile a quello del territorio di Garaguso lo ha visto soltanto sull’Appennino Tosco-emiliano e nelle Alpi Apuane, insomma in una regione settentrionale. Rifletto poi sul fatto che, come sottolineato da scrittori e intellettuali ed evidente dagli studi storiografici e letterari, nelle aree interne le differenze tra nord e sud si attenuano e l’Italia ritrova la sua unità spirituale, culturale e antropologica proprio lungo la dorsale appenninica, dove le tradizioni, la storia, l’immaginario, l’arte, la letteratura sono rese simili dal paesaggio collinare e montano.
Il superamento del divario economico e civile tra Nord e sud deve partire proprio dalla Lucania, dalle potenzialità creative, culturali ed economiche legate alla terra, alla collina, alla montagna, da sempre alla base di un immaginario dominato da coerenza, tenacia, determinazione nel perseguimento di obiettivi concreti, dignitosi e solidamente ponderati, oltre che luoghi ispiratori delle più grandi espressioni spirituali, letterarie, artistiche. Ad esempio, la Divina Commedia di Dante probabilmente non sarebbe stata concepita se il sommo poeta, durante l’esilio, non avesse avuto esperienza delle gole e dei rilievi dell’Appennino tosco-emiliano e delle Alpi Apuane. E’ da ricordare inoltre che i monoteismi ebraici e cristiani hanno visto la luce nelle aree interne del Medio Oriente, considerate simili, come è ben noto, al territorio materano, per non parlare di altre grandi creazioni artistiche e letterarie, ispirate all’ambiente collinare e montano.
Matera, città dei Sassi e della roccia, della collina e della terra, designata, in Italia, capitale europea della cultura 2019, dopo le settentrionali Genova, Firenze e Bologna, è la prova che la cultura e l’arte che nascono in ambienti continentali e interni hanno un’importanza peculiare e dunque l’intero entroterra lucano, con le sue valli, colli e monti, col bagaglio di tradizioni, storia, arti figurative e letteratura ad essi legati, deve essere un supporto attivo e propositivo al ruolo assegnato a Matera in Europa per il fatidico 2019 ed ovviamente per un futuro più lungo e glorioso di riscatto spirituale e materiale della Basilicata.
Percepiamo con piacere il vento di tramontana che soffia forte e secco tra le verdi e giovani foglie delle querce, dei cerri, dei frassini, aceri, carpini, ontani, sorbi che si contorcono, si avviluppano e stormiscono, risucchiate dalle raffiche impetuose. Scorgiamo la volta azzurra del cielo che si staglia sul crinale boscoso della tempa Furugghiusa cosparsa di ginestre. Continuando a salire, a partire dai 600 metri, l’aria è più rarefatta e leggera, la temperatura diminuisce, il vento rinforza, costringendo alcuni di noi a indossare qualche maglia o giacca da montagna, mentre scorgiamo, ai bordi del sentiero, su un suolo più umido e fresco, alcuni esemplari di funghi lattari.
Raggiungiamo infine, superando una sella e un piccolo valico in direzione sud con la vista di Stigliano e del Pollino, la sommità del rilievo, la cosiddetta Serra Boscone, il punto più elevato del percorso da noi programmato (i nostri altimetri e le mappe ufficiali indicano 789 metri di quota), dominata da un esemplare gigantesco di rovere, dal tronco possente, dalla perfetta forma circolare, da cui si protendono rami poderosi come grandi braccia nel blu intenso di un cielo straordinariamente limpido: “in un’aria vulcanica, fortemente accensibile, gli alberi respirano di un palpito inconsueto, le querce ingrossano i ceppi della stessa sostanza del cielo” (Sinisgalli, Lucania).
Il panorama è talmente vasto, immenso, esteso a perdita d’occhio, che ci trasmette una sensazione di pace, di oblìo, di consapevolezza dell’irrilevanza dei problemi umani rispetto all’infinito dello spazio e del tempo. Sul crinale della Serra, in prossimità di una siepe “che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”, non possiamo fare a meno di ricordare e declamare L’infinito di Leopardi.
Ci ricordiamo che questi luoghi erano visibili anche da Tricarico e recitiamo (il sottoscritto e Cosimo, guide dell’escursione, ci alterniamo nella declamazione dei testi poetici) “Passaggio alla città” di Scotellaro: commuove la nostalgia della propria terra da parte del giovane poeta poco più che ventenne che deve lasciare Tricarico per recarsi a Roma, a lavorare e studiare: “Addio, come addio, distese ginestre / spalle larghe dei boschi che rompete la faccia azzurra del cielo /querce e cerri affratellati nel vento”, l’integrità del bosco, l’imponenza dei crinali collinari, ricoperti di querce che si stagliano alte nel cielo, attraversate dal vento, con la loro bellezza schietta e incontaminata, sono il simbolo della spontaneità della natura, della dignità che nasce dalla forza e dalla semplicità, valori da riproporre nei rapporti umani. A tale vigore e autenticità si contrappone il mondo freddo e spietato della città, dell’interesse e del commercio: “Ho perduto la schiavitù contadina, / non mi farò più un bicchiere contento, / ho perduto la mia libertà. / Città del lungo esilio /di silenzio in un punto bianco dei boati, / devo contare il mio tempo / con le corse dei tram, / devo disfare i miei bagagli chiusi, / regolare il mio pianto, il mio sorriso. // Addio, come addio? distese ginestre, / spalle larghe dei boschi / che rompete la faccia azzurra del cielo, / querce e cerri affratellati nel vento, / pecore attorno al pastore che dorme, / terra gialla e rapata, / che sei la donna che ha partorito, / e i fratelli miei e le case dove stanno / e le donne e mamma mia, / addio, come posso dirvi addio? // Ho perduto la mia libertà: / nella fiera di Luglio, calda che l’aria / non faceva passare appena le parole, / due mercanti mi hanno comprato, / uno trasse le lire e l’altro mi visitò. / Ho perduto la schiavitù contadina / dei cieli carichi, delle quercie, / della terra gialla e rapata. / La città mi apparve la notte / dopo tutto un giorno che il treno aveva singhiozzato, / e non c’era la nostra luna /e non c’era la tavola nera della notte / e i monti s’erano persi lungo la strada.”
Ma adesso la stessa logica cinica e spietata, venale e commerciale propria dei grandi centri urbani, si impone anche su queste terre che il poeta di Tricarico contrapponeva al mondo della città. La “città” di Scotellaro è arrivata anche nei nostri boschi, il mondo dell’interesse e del guadagno sta distruggendo le bellezze più autentiche e primordiali: quelle della natura.
Sulla sommità della Serra Boscone, nel punto più elevato e dominante del rilievo meta della nostra escursione, da cui si osserva il panorama dell’intera provincia materana e si scorge lontana la lamina azzurra del mare, in prossimità di querce maestose, sulla spalla del bosco più alta e più larga che si staglia nell’azzurro del cielo, si eleva una famigerata “antenna di monitoraggio del vento”, minaccioso preludio alle pale eoliche. I compagni di escursione si scandalizzano: “questo posto è troppo bello, non può essere rovinato dalle gigantesche e mostruose torri del vento”; si parla di politica e della distanza che separa la volontà dei cittadini e le decisioni del potere, si menzionano le trivelle, le estrazioni petrolifere, le tante ingiustizie sociali.
Le pale eoliche, giganteschi “mulini a vento”, assurdi in queste aree interne del sud, in cui il vento è sporadico e poco intenso e intercettato e indebolito dalle vicine montagne, si sovrappongono ai dolci profili delle nostre colline come presenze mostruose e surreali, ne minano il valore di simbolo dell’identità della regione e rappresentano il trionfo del bieco e irrazionale interesse economico anche su queste terre così semplici e schiette. Le pale eoliche, con la loro graduale invasione, stanno distruggendo per sempre la bellezza dolce e austera delle serre, coste e tempe lucane, all’origine del nostro immaginario, motivo di ispirazione dei testi di Sinisgalli, Scotellaro e di altri grandi poeti, scrittori, artisti lucani.
La Lucania di Scotellaro e di Sinisgalli, “le lande, le valli / dove i fiumi scorrono lenti come fiumi di polvere”, “la terra di boschi e dicalcare” sono violate da un’azione politica che sfugge al nostro controllo, che non è da noi condivisa e apprezzata; ci vengono in mente altri testi di Scotellaro, tra i quali “Contadini del Sud”, con la storia della rivoluzione solitaria e simbolica di Michele Mulieri, di cui è visibile il busto in bronzo al bivio di Grassano-Calle-Tricarico.
Penso alla solitudine del poeta-sindaco di Tricarico, alla sua emarginazione, al carcere, alla persecuzione politica, alla nostalgia del paese, della gente semplice, della terra e dei contadini. E’inevitabile anche il confronto con Carlo Levi e con la sua idea di “Lucania” come insieme di valori schietti e autentici, legati alla natura più profonda dell’uomo e incompatibili con il potere politico e la burocrazia.
Dopo aver percorso in discesa lo stesso sentiero dell’andata, un tempo frequentato dal passo frettoloso e ansioso della gente di Garaguso, che si recava quotidianamente nell’aristocratica, colta, autorevole e burocratica San Mauro Forte (in passato sede di uffici giudiziari, paese di celebri e abili avvocati, notai, medici e farmacisti), avanziamo lungo il greto della Salandrella, superando le anse dell’esiguo corso d’acqua mediante brevi e facili guadi, fino a trovarci sotto il “cinto delle Tempe”, la grande falesia del Sabbione di Garaguso, a picco sul torrente, di fronte ai versanti boscosi, in una luce pomeridiana intensa e radiosa (è il 21 giugno, solstizio d’estate).
Il colore giallastro della formazione rocciosa brilla nell’aria straordinariamente limpida e diafana per via della tramontana frizzante e secca che soffia forte, da alcune ore, dopo la pioggia della notte, rendendo terso e azzurro il cielo, nitidi e luminosi gli orizzonti, i boschi, le rocce.
La parete del “Sabbione “si distende in lunghezza per centinaia di metri cingendo la rupe di Garaguso, fino alla profonda gola del “ponte del diavolo” ed è incisa da cavità e solchi dalle forme contorte.
Luminoso e dorato, solitario e remoto, circondato dal silenzio, dalla sabbia e dalle pietre del letto inaridito del torrente, dal grigio degli ulivi che si distendono alle falde e sulla sommità, il “cinto” della “tempa di San Nicola” dispiega improvvisamente al nostro cospetto le centinaia di migliaia di anni della sua storia: “cumuli di macerie restano intatti per secoli; / nessuno rivolta una pietra per non inorridire. / Sotto ogni pietra, dico, ha l’inferno il suo ombelico. / Solo un ragazzo può sporgersi agli orli / dell’abisso per cogliere il nettare / tra i cespi brulicanti di zanzare / e di tarantole (Sinisgalli, Lucania ).
“Una volta c’era il mare; questi sono sedimenti di fondali, ci troviamo nell’Avanfossa bradanica, tra la piattaforma apula e le formazioni appenniniche; in alcuni anfratti e grotte sono visibili fossili di animali marini preistorici”: stiamo ascoltando le parole precise e rigorose e tuttavia semplici e chiarissime di un giovanissimo geologo di Garaguso che è comparso all’improvviso in bicicletta sul nostro stesso sentiero, in direzione opposta alla nostra; facciamo appena in tempo a ringraziarlo per le preziose delucidazioni scientifiche che lui, sorridendo felice, cortese e umile, si allontana veloce sulle due ruote, in compagnia del fratello, dileguandosi nella luce e tra la fitta vegetazione del torrente.
Mi vengono in mente ancora le parole di Sinisgalli, di un celebre testo in prosa, sul temperamento schivo e modesto dei lucani, consapevoli della problematicità del reale: “Dove c’è troppa luce il lucano si eclissa, dove c’è troppo rumore il lucano s’infratta”.
Penso con commozione alla storia della nostra terra, fatta di paradossi, contraddizioni, grandezze e miserie, a tanti lucani famosi e sconosciuti del passato e del presente, a me stesso, alla nostra indole prudente e saggia forgiata dalla storia e dall’ambiente naturale. Probabilmente, nonostante il mutamento e la globalizzazione dei modi di vita, le riflessioni di Sinisgalli sulla cosiddetta “lucanità” sono ancora in parte valide: un patrimonio morale da difendere, apprezzare, valorizzare:
Girano tanti lucani per il mondo, ma nessuno li vede, non sono esibizionisti. Il lucano, più di ogni altro popolo, vive bene all’ombra. (…) E’ di poche parole.(…) Non si capisce dove mai abbia attinto tanta pazienza, tanta sopportazione. Abituato a contentarsi del meno possibile si meraviglierà sempre dell’allegria dei vicini, dell’esuberanza dei compagni, dell’eccitazione del prossimo. Lucano si nasce e si resta (…). Il lucano non si consola mai di quello che ha fatto, non gli basta mai quello che fa. Il lucano è perseguitato dal demone della insoddisfazione. Parlate con un contadino, con un pastore, con un vignaiuolo, con un artigiano. Parlategli del suo lavoro. Vi risponderà che aveva in mente un’altra cosa, una cosa diversa. La farà un’altra volta.
Come gli indù, come gli etruschi egli pure pensa che la perfezione non è di questo mondo. (…) Non trovano in terra le condizioni necessarie per poter fare il meglio che sanno fare. Strana etica. L’ultimo tocco, il tocco della grazia il lucano non lo troverà mai. Eppure nella nitidezza del disegno ti parrà di intravvedere l’opera compiuta. Manca un soffio. Questo è un popolo che la saggezza ha portato alle soglie dell’insensatezza. Come una gallina che s’impunta davanti alla riga tracciata col gesso l’intelligenza dei lucani si distoglie per un niente, si blocca appena sente volare una mosca. ( da Leonardo Sinisgalli. Il ritratto di Scipione e altri racconti)
Percorriamo un vecchio sentiero abbastanza largo, in leggera pendenza e con dolci tornanti, costituito da una miriade di piccoli ciottoli del greto, collocati uno per uno a mano dalla tenace, silenziosa, anonima e umile fatica quotidiana di sconosciuti abitanti del passato, lontani dalle frenesie moderne: esso collega le sabbie e le pietre della Salandrella con la stretta strada sul bordo della falesia del Sabbione, che conduce nel centro storico di Garaguso.
Un tempo destinato al lento, tranquillo, taciturno e cadenzato passaggio, alle prime luci dell’alba e alla sera, di uomini, asini e muli con some di legna, greggi e mandrie, il selciato pare una specie di naturale proseguimento, ordinato e funzionale, in direzione del paese, del caotico pietrame fluviale e un’utile sistemazione, esigua e occasionale, precisa e rigorosa, sobria e paziente, resistente al passare del tempo, della babelica confusione di pietre e ciottoli di ogni forma e dimensione (spigolosi, tondi, piatti etc.) di cui trabocca il letto del torrente.
Risalendo il bordo del “cinto”, poco prima dell’ingresso nel centro storico, nel punto culminante e più scosceso dell’altura rocciosa, faccio notare il versante piantato a oliveto, che si affaccia sulla valle della Salandrella, nel cui sottosuolo è stato scoperto, circa un secolo fa, nel contesto monumentale di un grande santuario pagano, un “modellino di tempio e di dea in trono” (Persefone, Demetra, Era o comunque una divinità femminile della fertilità), del V secolo a. C., manufatto sacro e pregiato, ricco ex voto creato nella colonia magno-greca di Metaponto con marmo proveniente dai dintorni della raffinata Atene classica.
Il “tempietto di Garaguso “ è un reperto celebre nel mondo dell’archeologia antica e attualmente fiore all’occhiello del Museo Archeologico Provinciale di Potenza. Le mie parole, supportate dalla visione di belle riproduzioni fotografiche del tempietto e della dea su eleganti pubblicazioni a colori che ho portato nello zaino, sono accolte con sorpresa e perplessità: gli amici di escursione si chiedono, giustamente stupiti, per quale motivo un sito archeologico così importante, oggetto di indagini, saggi esplorativi e studi da oltre un secolo, da parte di specialisti di chiara fama, di importanti università italiane ed estere, non sia mai stato portato alla luce e reso fruibile e si trovi tuttora sepolto sotto un terreno regolarmente coltivato, fra la totale e palese noncuranza di autorità e cittadini (nel 2014 viene pubblicato il volume “I marmi di Garaguso: Vittorio Di Cicco e l’imbroglio della loro scoperta”, Osanna edizioni, a cura del prof. Jean Marc Moret, dell’Università di Lione, che tratta le complesse, misteriose e intriganti vicende della scoperta dei reperti agli inizi del Novecento; libro finora mai presentato nella nostra regione!).
I raggi del sole risplendono sui versanti del bosco, avviandosi lentamente verso il lungo, dorato e luminoso tramonto del solstizio d’estate; entriamo finalmente nel centro storico di Garaguso, che avevamo già visto da lontano, abbarbicato alla roccia del “Sabbione”, quando ci trovavamo ancora sulle pendici dell’Aliternosa e del Boscone e nel greto della Salandrella.
Ad accoglierci all’ingresso del paese, su una piazzola che si affaccia sulla Salandrella e di fronte al bosco, attorniato da gente lieta e incuriosita dalla nostra insolita presenza, troviamo il poeta Gaudenzio Calciano, nato a Garaguso, vissuto sempre nel centro storico, dove, fino a qualche anno fa, faceva il “fornaio”, preparando e vendendo il pane ogni giorno, osservando con attenzione ed acume la vita quotidiana del paese ed i suoi cambiamenti graduali e inesorabili.
Ascoltiamo Aliternosa, recitata sulla piazzola affacciata sul baratro della Salandrella, di fronte al bosco omonimo, inondato dal sole ormai più basso e meno intenso del tardo pomeriggio. I versi in dialetto di Gaudenzio ci ricordano con malinconia e nostalgia che, in questi ultimi anni, sui versanti ripidi e forestali dell’Aliternosa, non si scorgono più le mandrie e le greggi; sono scomparsi i pastori, i carbonai, i taglialegna; i sentieri e i rifugi in pietra sono ormai in abbandono, in disfacimento: il grande e foltissimo bosco di Garaguso, il “Boscone”, è dimenticato dalla gente del posto e non è più parte del tessuto economico e sociale della comunità.
Ci inerpichiamo subito dopo lungo la via Fondaco, sul versante più scosceso del pendìo roccioso che si affaccia sulla Salandrella, cosparso di caverne. Il nome Fondaco è di origine medievale (arabo funduq dal greco pàndokos: “albergo”, “foresteria”, “luogo di dimora per gente di passaggio”) e designava i locali commerciali, frequentati dai mercanti forestieri che spesso vi risiedevano temporaneamente (es. fondaco dei Tedeschi a Venezia, fondaco dei Veneziani, Genovesi, Pisani in Oriente, etc.; vedi Treccani.it), la cui presenza è attestata, nei documenti d’archivio, anche per alcuni centri lucani, dal Medioevo fino all’Ottocento, come Tricarico e quindi il toponimo indicherebbe l’esistenza, a Garaguso, in un passato ancora ignoto, di un centro di scambio delle merci e di soggiorno di mercanti stranieri, su un asse di comunicazione che collegava la valle della Salandrella e le aree interne della Lucania (C. Biscaglia in Garaguso, la sua storia e il suo territorio, 2006). Non è comunque da escludere che il termine si riferisca semplicemente, come in altre regioni meridionali, a piccoli locali, in questo caso scavati nella roccia del Sabbione, adibiti un tempo a stalle e depositi dei frutti della terra e, a differenza dei Sassi di Matera, solo eccezionalmente utilizzati come abitazioni, a Garaguso costruite invece con grosse pietre del torrente.
Le case del centro storico sono intonacate con gusto e pulizia ma un tempo affioravano a vista le pietre della Salandrella. I pesanti ciottoli, macigni e sassi di varie forme e dimensioni, levigati e induriti dal tempo, con cui erano fabbricati gli spessi muri delle vecchie abitazioni, davano sicurezza e protezione, ma le crepe improvvise, il pericolo di crollo per i terremoti, le lunghe piogge e le frane ricordavano ai nostri antenati, indifesi e miseri, la natura alluvionale del pietrame delle proprie dimore, risvegliavano negli uomini atterriti del passato, destati nel cuore della notte da incubi, tuoni, boati e fragori sospetti, la consapevolezza dell’essenza instabile e precaria delle pietre domestiche, della tendenza e vocazione inesorabile e fatale di queste ultime a ritornare, precipitando o scivolando nel fango e nella melma dei versanti franosi, tra le rovine e le macerie eterne, nei torrenti, nei fossi, nei burroni, nella corrente rumorosa e travolgente dei fiumi e a partecipare nuovamente al rotolìo cupo e minaccioso dei sassi trascinati dalle piene.
Il vento soffia sempre più forte tra i vicoli solitari, le porte e le finestre sono chiuse. Il sole proietta raggi dorati sui boschi, mentre le dolci curve delle cime gemelle, simmetriche e tondeggianti del Monte La Croccia (1125 e 1151 metri), il cui nome forse è legato alla somiglianza col crocco, il bastone a due punte dei pastori, ma che ricordano piuttosto un paio di corna bovine o un gigantesco seno femminile, svettano sempre più scure e imponenti nei colori del tramonto.
Senz’altro per i popoli della preistoria e del mondo antico, che frequentavano la zona, il profilo del Monte La Croccia, così come visibile dal territorio di Garaguso, era un potente simbolo dell’archetipo primordiale della Madre Terra e della sua fecondità, secondo quanto dimostrato ampiamente da celebri studi a proposito di altre sommità montane, dalla forma simile, a doppia cima, presenti in Grecia, in Asia Minore e Medio Oriente.
Percorrendo velocemente col nostro passo allenato di escursionisti scalinate e viuzze selciate in forte pendenza, tra antiche case in pietra, ci addentriamo nel passato, ritorniamo indietro nel tempo, risaliamo il corso dei secoli fino al lontano e misterioso Medioevo di Garaguso e della nostra regione.
Superiamo un varco scavato nella friabile roccia del “Sabbione”, sormontato da un portico, sotto un’ala del palazzo ducale: il portiello (“purtidd” in dialetto), porta d’accesso al nucleo più alto e antico del paese, dalla sommità rocciosa naturalmente fortificata, su cui svettava il misterioso e sconosciuto castello medievale di Garaguso, attestato dalle scarse fonti storiche. Il Catalogus Baronum di epoca normanna documenta, infatti, l’esistenza di un feudo locale (intestato a Iuliana de Garagusa, moglie di Adam, prima feudataria accertata del borgo), facente parte della Contea di Montescaglioso ed elemento di un sistema di fortificazioni, fondato in epoca longobarda o bizantina, per il presidio e il controllo militare dell’area del Medio Basento, di cui ancora sono visibili i turriti ruderi a San Mauro Forte, Tricarico, Pietrapertosa, Castelmezzano, nella foresta di Gallipoli. La fortezza di Garaguso (chiamato Castro Garaguso nei documenti d’archivio dal Medioevo al Seicento) sarebbe stata gravemente danneggiata dal disastroso terremoto che devastò le terre lucane nel 1694, per poi essere demolita e sostituita definitivamente dall’attuale palazzo dei duchi Revertera, più volte rimaneggiato e ampliato come leggiamo nell’epigrafe in latino che, insieme allo stemma araldico, sormonta il portale.
Passiamo rapidamente dinanzi al portone del cortile del settecentesco palazzo ducale, lungo una via strettissima e in forte pendenza nel punto più elevato del centro storico, che collega la chiesa di San Nicola di Myra e la torre dell’orologio, mentre fra i tetti delle case si intravedono scorci di bosco e lembi più o meno ampi delle ondulate sommità delle serre e delle tempe del territorio comunale, le vette del monte La Croccia e dei monti di Accettura, un pò più distanti.
Il palazzo era stato edificato dal Conte di Tricarico, il Duca Nicola Ippolito Revertera, feudatario di Garaguso, come soggiorno venatorio, dimora di riposo e ristoro dalle battute di caccia nei grandi boschi circostanti, tra cui quello di Piano o Serra del caprio (cioè del “capriolo), l’attuale Boscone, che, come indica il vecchio toponimo, era ricco di selvaggina pregiata.
UT VENATORIAM DEFATICATIONEM PROXIMA LAXARET QUIES / NICOLAUS HYPPOLITUS REVERTERIUS / SALANDRAE DUX, TRICARICI COMES, HUIUS OPPIDI DUNASTES &. &. / MAGNAS HISPANIARUM ATQUE CAROLI BORBONI REGIS CUBICULARIUS / DOMUM HANC A PATRE EXCITATAM AMPLIANDAM CURAVIT / NOVISSIME ANTONIA THERIAMB(E) UXOR HODIERNI DUCIS JOH. VINCENTI) CURATRIX / AMPLIORI CULTU EXORNAVIT / AER VULG. MDCCLX.
“Affinché un luogo di riposo vicino ristorasse dalle fatiche della caccia / Nicola Ippolito Revertera / Duca della Salandra, Conte di Tricarico, / signore di questo borgo etc. etc. / Grande di Spagna e Gentiluomo di camera del re Carlo di Borbone / fece ampliare questo palazzo proseguendo l’opera del padre (Francesco), ultimamente sua moglie Antonia Theriambe, tutrice dell’attuale Duca Giovan Vincenzo / lo ha abbellito con ancor più grande cura. / Era volgare 1760.
Il silenzio avvolge le vecchie mura e il selciato deserto; nulla è cambiato, tutto è come sempre è stato; perdiamo la nozione del tempo: siamo nel pomeriggio del 21 giugno di un anno della metà del Settecento e, da un momento all’altro, potrebbe comparire il duca Nicola Ippolito Revertera a cavallo, armato fino ai denti, minaccioso, accigliato e temibile, che percorre altero e superbo, scortato da servi e guardie, lo stretto vicolo in forte pendenza nel cuore di Garaguso, al rientro dalla battuta di caccia, con il carico, caldo e sanguinante, di volpi, lepri, caprioli, cinghiali, penzolanti dai suoi ronzini.
Gaudenzio Calciano, che ci segue partecipe ed entusiasta, vicino alla torre dell’orologio recita Passato garagusano, con testo in italiano, nel quale racconta con affetto e commozione di un paese quasi confuso con le rocce su cui sorge e tra i colli circostanti, piccolo, ma un tempo popolato di vita semplice, buona e spontanea: contadini, bambini, animali domestici.
In vista del vicino “ponte del diavolo” che scavalca, con una grande e audace arcata, una stretta e profonda forra tra due pareti dell’ormai noto “Sabbione di Garaguso”, percorriamo la via Filera a picco su una falesia rocciosa, come ricorda il suo nome. Proseguiamo sul bordo del paese, lungo il paratiello (u paritidd’), dal quale i grandi seni del Monte La Croccia si scorgono in tutta la loro imponenza e ci accompagneranno materni e femminili, dolci e ammiccanti, con scorci improvvisi tra i vicoli e i tetti delle case, durante l’intera nostra visita a Garaguso.
Siamo all’imbocco della via Foggiali, poi chiamata via Matteotti, ma il nome originario ricorda la natura, la funzione storica, il rapporto del luogo con gli uomini. Foggiali (toponimo presente anche in alcune zone dei centri storici di Foggia, Matera, Altamura etc.) deriva da foveae, antiche fosse o cavità scavate nella roccia, con locali, tuttora esistenti e inglobati dalle successive abitazioni in pietra, ricavati nel cuore antico, fresco e buio del Sabbione, dove domina il silenzio eterno dell’assenza del tempo e venivano riposti il grano, l’olio, il vino, graditi e generosi, dolci e preziosi, il frutto del lavoro, il dono della terra, il tesoro contadino, custoditi gelosamente, per diventare cibo quotidiano a disposizione degli uomini, nel grembo, nell’utero materno, fertile e oscuro, misterioso e profondo della rupe di Garaguso, nelle viscere segrete, protettrici, sicure e feconde del paese natìo.
“Tarantella”, con una coinvolgente simpatia e un’umanità straordinaria, ci viene incontro, sorridendo gioviale ed espansivo tra abbracci e pacche sulle spalle; ci insegna, con l’età non più giovane e la spontanea allegria, che si può essere felici con poco e sempre, basta soltanto un pò di fantasia e di coraggio.
Ci ricorda commosso la baldoria folclorica e paesana dell’ultimo giorno carnevale e il grottesco corteo da lui organizzato in anni ormai sempre più lontani, con il vecchio asino ormai scomparso, compagno di fatiche e di divertimenti. La sera del martedì grasso, quando il tramonto un pò più lungo e luminoso addolcisce i rigori dei venti, gelidi e sibilanti nei vicoli di fronte “alla Croccia” innevata, il paziente e umile animale, simbolo universale delle sofferenze e ingiustizie della vita, con la grossa damigiana di vino sul dorso, avvolta da catene di gambe di salsiccia, in un capovolgimento momentaneo e ironico della propria condizione, veniva trascinato in giro per il paese dalla folla esaltata, per una esilarante questua di salame e vino, tra lazzi, grida, cupa cupa, ritornelli satirici e scanzonati, battute, rime, aforismi e filosofia sentenziosa contro il dolore della vita, versi e frasi che precedevano e accompagnavano le grandi scorpacciate e bevute dell’euforica e trasgressiva serata di fine inverno.
Un paio di piattini di salsiccia e soppressata unta di olio e due grossi recipienti colmi di vino, disposti con ordine e pulizia sul gradone di una vecchia casa, sono il graditissimo frutto della generosità spontanea e ospitale di “Tarantella”, ultimo protagonista del passato, di un mondo duro ma felice, saggio e schietto, la cui presenza è ritornata, improvvisa e fugace, in questo tramonto dorato e ventoso di solstizio d’estate, tra le strette vie antiche e ormai abbandonate di Garaguso.
La voce dialettale del poeta Gaudenzio Calciano è la voce di quei vicoli ora deserti, che raccontano la storia di uomini, donne, bambini che popolavano nella medesima ora, dello stesso giorno, di tanti anni prima, quegli stessi spazi, selciati, case, porte, ora completamente solitari; gioie, dolori, strida, umanità densa, pulsante, vitale, unita dalla ristrettezza di spazio e dai legami affettivi, viscerali e profondi, in cui il pianto e il riso, la rabbia e il sorriso si confondevano e mescolavano.
L cummar du vcinat, recitata da Gaudenzio sulla soglia della casa in cui il poeta di Garaguso è nato e ha sempre vissuto, ci parla della vita apparentemente dura ed egoista, fatta di invidia, pettegolezzi, odi elementari e violenti, ma fugaci e passeggeri delle donne dei vicinati, occupate nei lavori domestici e nella cura della prole numerosa; ogni giorno erano litigi e risse alla fontana con recipienti che piombavano a terra rumorosamente, ma di quei tempi rimane l’eco di un’operosità silenziosa, instancabile ed umile, una solidarietà autentica e profonda, un’umanità schietta e tenace anche se inasprita dalla miseria sempre in agguato.
Superando un piccolo arco tra due file di case ravvicinate scendiamo nella parte più bassa della rupe di Garaguso, lungo la via Paschiera (forse da “pesco”: “pietra, sasso, prominenza rocciosa”), che serpeggia sinuosa sul bordo di un promontorio del solito Sabbione, soggetto da sempre a frane e distacchi di sassi e macigni sul vallone sottostante, “fosso delle Fontanelle”, ricchissimo di ritrovamenti archeologici nel corso delle frequenti campagne di scavo degli ultimi decenni.
I numerosissimi reperti, appartenenti a due grandi stipi votive, costituite in gran parte da vasellame dipinto in ceramica e da statuette femminili, in piedi o in trono, frutto dell’influsso o della frequentazione degli abitanti delle colonie magno-greche, databili dall’età classica al II sec. A. C, sono custoditi nei musei provinciali di Matera, Potenza e Metaponto e sono stati ultimamente analizzati e illustrati, dopo una lunga serie di saggi e articoli ad opera di celebri accademici, anche da un dettagliato e corposo lavoro scientifico pubblicato da qualche mese (Bertesago Silvia M., Garaffa Valentina, L’area sacra di Grotte delle Fontanelle a Garaguso, 2015, Osanna edizioni).
In un angolo assolato, all’estremità del paese, in vista ravvicinata della gola del ponte del diavolo, fra vecchie case piccole e basse, piacevolmente avvolti dai raggi obliqui del sole che declina lentamente verso l’orizzonte ondulato delle Serre ricoperte dalle messi ormai dorate e mature, ascoltiamo nuovamente la voce dialettale di Gaudenzio declamare, questa volta, A casa stadd , che ricorda le vecchie dimore con stalla, in cui si svolgeva la vita famigliare a contatto con asini e muli, situazione, in passato, molto più diffusa e tristemente nota nei Sassi di Matera.
Mi accorgo che tutto avviene e si sviluppa spontaneamente, non ricordiamo più di avere organizzato l’escursione “letteraria”, culturale e naturalistica nel paese lucano, preparato gli incontri con la gente del posto e studiato l’itinerario: tutto sembra svolgersi come obbedendo ad una logica e volontà naturale.
Ognuno di noi, gli escursionisti e la gente che ci ha accolto, modesta e riservata, ha ritrovato per poche ore, come per un miracolo breve e improvviso, la propria identità e umanità, le radici spirituali, l’io più autentico e profondo, dimenticando il ruolo concordato ed emozionandosi e divertendosi davvero; la regia, la finzione sono diventate realtà, anzi hanno fatto emergere la nostra originaria natura di uomini legati alla terra e alla natura, al ritmo delle stagioni e all’attesa serena e saggia del futuro, indole ormai sempre più offuscata dalle frenetiche e alienanti abitudini di vita di un mondo urbanizzato e globalizzato.
Sono bastate poche parole, pochi cenni, qualche brevissima conversazione al cellulare perché tutti, in questa giornata straordinaria e magica, capissero subito, per una specie di naturale, spontanea e antica complicità, quello che dovevano fare e dire, sentire ed esprimere.
“Il Lucano è di poche parole” per modestia, pudore, intelligenza, prudenza, consapevolezza che il mondo e la vita sono enigmatici e imprevedibili, difficili e complessi, così come insegna il paesaggio naturale della regione, selvaggio, vasto, solitario e misterioso.
“Lo spirito del silenzio sta nei luoghi della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto, sofistico e d’oro, problematico e sottile, / divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio / nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce / con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati.” (Sinisgalli, da Lucania, vv. 11 e ss.).
Michele Marra